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16 maggio 2019

No al respingimento di uno straniero verso uno Stato in cui la sua vita o la libertà siano a rischio


Per la Corte di Giustizia il diritto dell'Unione prevede una protezione internazionale più ampia di quella garantita dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

La sentenza

 

Il diritto dell'Unione prevede una protezione internazionale dei rifugiati più ampia di quella garantita dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. In particolare anche se quest'ultima consente (articolo 33, paragrafo 2) l'espulsione o il respingimento di un rifugiato considerato un pericolo per la sicurezza o la collettività del paese in cui risiede, tali respingimenti sono comunque in contrasto con il diritto dell'Unione complessivamente considerato, ed in particolare con i diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

È questo l'importante principio riconosciuto dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea con una sentenza del 14 maggio scorso.

Il quadro normativo  

Il principio di non-refoulement ovvero il "diritto al non respingimento", è un principio fondamentale e consolidato di diritto internazionale, presente in varie convenzioni sia di carattere regionale che internazionale. Tra queste la convenzione di Ginevra è la più completa, in quanto prevede all'art.33 che: "nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche". Nella Convenzione tale  principio soffre tuttavia una eccezione sancita dal secondo comma dell'art. 33 che recita: "La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese."

A monte, poi, l'art. 1F della Convenzione  esclude l'applicazione dell'intera disciplina convenzionale alla persona nei cui confronti sussistano gravi motivi per ritenere che si sia macchiata di gravi crimini o comportamenti riconducibili alle seguenti categorie: crimini contro la pace, crimini di guerra o crimini contro l'umanità; gravi reati non politici commessi fuori del paese di rifugio prima della sua ammissione in tale paese; atti contrari ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite.

In ambito Ue l'articolo 14 (comma 5 e 6) della direttiva 2011/95/Ue (cd direttiva qualifiche), prevede la possibilità per gli gli Stati membri di non riconoscere oppure di revocare lo status di rifugiato quando vi siano fondati motivi per ritenere che la persona costituisca un pericolo per la sicurezza o per la comunità dello Stato membro in cui si trova.

La questione pregiudiziale su cui la Corte di Giustizia si è pronunciata prendeva le mosse dal dubbio sollevato dai giudici di rinvio, sulla compatibilità del suddetto articolo della direttiva con i principi sanciti da altre norme internazionali. In particolare la Carta Europea dei diritti fondamentali prevede il divieto perentorio e a prescindere dal comportamento dell'interessato (articolo 19), di allontanare, espellere o estradare una persona verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.

La sentenza

I giudici della Corte di Giustizia partono dalla considerazione che   il diritto dell'Unione riconosce ai rifugiati una protezione internazionale più ampia di quella assicurata dalla Convenzione di Ginevra e che la revoca dello status di rifugiato, quando c'è un rischio grave per la vita o la libertà di una persona fa perdere alcuni benefici connessi a tale status, ma non permette il rimpatrio.

La Corte osserva che il riconoscimento formale dello status di rifugiato ha come conseguenza il fatto che il rifugiato disponga del complesso dei diritti e dei benefici previsti dalla direttiva per questo tipo di protezione internazionale. Vi sarebbe tuttavia una differenza tra il riconoscimento formale dello status di rifugiato – atto di natura riconognitiva  e non costitutiva – e il soddisfare le condizioni materiali da cui deriva la qualità di rifugiato. In sostanza, una persona il cui status di rifugiato venga revocato o negato in applicazione dell'articolo 14, della direttiva 2011/95 non potrebbe godere dei diritti e dei vantaggi derivanti da questa direttiva, ma questo non significa che soddisfando i requisiti materiali per essere ritenuto rifugiato, possa essere respinto.

La Corte rileva che i motivi di revoca e di diniego previsti dalla direttiva corrispondono ai motivi che la Convenzione di Ginevra riconosce tali da giustificare il respingimento di un rifugiato. La direttiva, tuttavia, dev'essere interpretata e applicata anche nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta Europea dei diritti fondamentali, la quale vieta, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell'interessato, e l'allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere.

I giudici concludono che  l'articolo 14, paragrafi 4 e 6, della direttiva qualifiche, se interpretati nel senso chiarito dalla Corte, possono considerarsi  conformi alla Convenzione di Ginevra e alle norme della Carta e del TFUE. Da ciò consegue che queste disposizioni devono essere considerate valide.

Fonte: Corte di Giustizia