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03 luglio 2023

“La Libia non è luogo sicuro dove concludere i soccorsi in mare”


Condannati il comandante della nave Asso 29 e le autorità italiane per un respingimento risalente al 2018

Il tribunale civile di Roma con la sentenza del 26 giugno 2024,  ha condannato le autorità italiane, il Capitano della nave Asso 29 e la società armatrice,  al risarcimento del danno nei confronti di cinque migranti che dopo essere stati soccorsi in mare furono ricondotti in Libia dal mercantile italiano.  

La vicenda risale al 2018: il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Duilio, era intervenuto in soccorso di una motovedetta libica in avaria che aveva a sua volta da poco soccorso un’imbarcazione con circa 150 persone a bordo. Sotto il coordinamento italiano e libico, la Asso 29 aveva ricondotto li migranti a Tripoli, dove erano state detenuti e torturati nei centri di detenzione di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan.
Cinque dei sopravvissuti, all’inizio del 2021 hanno agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno subito a seguito della condotta delle autorità italiane e del capitano della nave.
La sentenza del Tribunale, nel dare ragione ai ricorrenti,  passa in rassegna i report delle missioni di inchiesta delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali su quanto avviene in Libia. I giudici osservano come il fatto che la Libia non sia un luogo sicuro costituisce, allo stato, acquisizione pacifica nella giurisprudenza di legittimità. “Sono universalmente documentate e denunciate le condizioni cui sono costretti i migranti nei centri di detenzione libici, che costituiscono tortura e trattamento inumano e degradante” I report della Indepentent Factfinding Mission on Libya del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite riferiscono che: “La Missione ha ragionevoli motivi per credere che in Libia vengano commessi crimini contro l'umanità contro i migranti. I migranti sono sottoposti a una diffusa e sistematica detenzione arbitraria. Atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani vengono commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria. Il carattere continuo, sistematico e diffuso di queste pratiche da parte del DCIM e di altri attori coinvolti riflette il fatto che funzionari di livello medio e alto partecipano al ciclo migratorio della violenza”. Senza contare che la Libia è un territorio ove vi è una situazione di violenza indiscriminata a seguito della guerra civile, con attacchi che colpiscono indiscriminatamente obiettivi civili e militari. La Libia, inoltre, osservano i giudici, non è parte della Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato e l’ordinamento non distingue tra migranti irregolari da un lato e rifugiati e richiedenti asilo dall’altro, con la conseguenza che tutti sono considerati “migranti illegali” e soggetti alle sanzioni previste dalla legge, prima tra tutte la detenzione con lavoro forzato, ove i migranti sono soggetti a trattamenti inumani e degradanti, per la quale non è previsto un limite massimo di durata, e la successiva espulsione

Il tribunale conclude  quindi  che la presenza delle autorità di frontiera libiche e l’esistenza di una zona SAR libica “non può far venir meno il rispetto degli obblighi internazionali da parte dello Stato italiano, che ha o comunque avrebbe dovuto avere un controllo di fatto sui migranti” e che quindi avrebbe dovuto “condurre i migranti in Italia, e non in Libia, indipendentemente dalle istruzioni libiche.

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