
Il tribunale civile di Roma con la sentenza del 26 giugno 2024, ha condannato le autorità italiane, il Capitano della nave Asso 29 e la società armatrice, al risarcimento del danno nei confronti di cinque migranti che dopo essere stati soccorsi in mare furono ricondotti in Libia dal mercantile italiano.
La vicenda risale al 2018: il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Duilio, era intervenuto in soccorso di una motovedetta libica in avaria che aveva a sua volta da poco soccorso un’imbarcazione con circa 150 persone a bordo. Sotto il coordinamento italiano e libico, la Asso 29 aveva ricondotto li migranti a Tripoli, dove erano state detenuti e torturati nei centri di detenzione di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan.
Cinque dei sopravvissuti, all’inizio del 2021 hanno agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno subito a seguito della condotta delle autorità italiane e del capitano della nave.
La sentenza del Tribunale, nel dare ragione ai ricorrenti, passa in rassegna i report delle missioni di inchiesta delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali su quanto avviene in Libia. I giudici osservano come il fatto che la Libia non sia un luogo sicuro costituisce, allo stato, acquisizione pacifica nella giurisprudenza di legittimità. “Sono universalmente documentate e denunciate le condizioni cui sono costretti i migranti nei centri di detenzione libici, che costituiscono tortura e trattamento inumano e degradante” I report della Indepentent Factfinding Mission on Libya del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite riferiscono che: “La Missione ha ragionevoli motivi per credere che in Libia vengano commessi crimini contro l'umanità contro i migranti. I migranti sono sottoposti a una diffusa e sistematica detenzione arbitraria. Atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani vengono commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria. Il carattere continuo, sistematico e diffuso di queste pratiche da parte del DCIM e di altri attori coinvolti riflette il fatto che funzionari di livello medio e alto partecipano al ciclo migratorio della violenza”. Senza contare che la Libia è un territorio ove vi è una situazione di violenza indiscriminata a seguito della guerra civile, con attacchi che colpiscono indiscriminatamente obiettivi civili e militari. La Libia, inoltre, osservano i giudici, non è parte della Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato e l’ordinamento non distingue tra migranti irregolari da un lato e rifugiati e richiedenti asilo dall’altro, con la conseguenza che tutti sono considerati “migranti illegali” e soggetti alle sanzioni previste dalla legge, prima tra tutte la detenzione con lavoro forzato, ove i migranti sono soggetti a trattamenti inumani e degradanti, per la quale non è previsto un limite massimo di durata, e la successiva espulsione
Il tribunale conclude quindi che la presenza delle autorità di frontiera libiche e l’esistenza di una zona SAR libica “non può far venir meno il rispetto degli obblighi internazionali da parte dello Stato italiano, che ha o comunque avrebbe dovuto avere un controllo di fatto sui migranti” e che quindi avrebbe dovuto “condurre i migranti in Italia, e non in Libia, indipendentemente dalle istruzioni libiche.
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