
Governare la paura o esserne governati è un bivio che impone di indagare il ruolo di un sentimento così spesso intrecciato con le migrazioni e l’integrazione. Una sfida raccolta da una giornata di studio promossa il 9 maggio a Roma da Scalabrini International Migration Institute e Fondazione Centro Studi Emigrazione, in un’ottica italiana e internazionale.
“Negli Usa oggi la paura verso i migranti è in realtà un rifiuto populista del pluralismo sociale e politico”. È la tesi di Pamela Harris, docente di Diritto Pubblico alla John Cabot University di Roma, che inserisce questo atteggiamento in una dinamica dualistica ricorrente nella storia americana. Alla narrativa “jeffersoniana”, che vuole il popolo americano omogeneo, unitario, autonomo, si contrappone una narrativa “madisoniana”, che vede le virtù americane radicate nel pluralismo di provenienze, religioso e di interessi. Anche se il motto “e pluribus unum” tenta una riconciliazione teorica tra le due logiche, nella realtà si succedono con prevalenza alternante.
“Dopo il pluralismo dell’era Obama, siamo ora in un momento storico ‘unitario’. L’ostilità verso i migranti è mascherata da paura e non è causata dai loro comportamenti o dal loro impatto economico, infatti vediamo che cresce proprio dove ce ne sono meno” sottolinea Harris. “Quella ostilità ha determinato sia un discorso politico violento, con attacchi a singoli e minoranze e una tolleranza crescente verso l’hate speech, sia scelte politiche come il muslim ban, la separazione delle famiglie alle frontiere, l’aumento delle espulsioni o la sospensione dell’amnistia per i dreamers, le persone arrivate negli Usa da bambini senza documenti”.
Per spiegare quei sentimenti, Harris cita, tra le altre letture, la status anxiety descritta dai sociologi: “I disagi materiali sono amplificati dalla percezione che mentre la mia condizione peggiora, quella di altri che ritengo meno valorosi migliora. Il bianco maschio e cristiano vuole sentirsi ancora privilegiato e il discorso xenofobo unitario lo esalta, è euforico”. C’è da sperare, però, in una nuova oscillazione verso l’ottica pluralista: “Siamo americani, un popolo di migranti e di figli di migranti e c’è una società civile mobilitata per riaffermare questo nostro dna”.
Mattia Vitiello, ricercatore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr, sottolinea che la paura è individuale, ma si nutre nella collettività e orienta i comportamenti di gruppi sociali. “In Occidente, come scrive Mbembe, c’è una paura condivisa di invasione, di sparire come popolo, di essere sostituiti, secondo una delle teorie complottistiche più in voga. È facile capire come su questa paura si innestino strumenti di governo, non solo nei regimi dove vince l’imposizione, ma anche nelle democrazie liberali dove si cerca condivisione”.
“Avendo rinunciato al concetto di sacro, come limite di azione e volontà umana, abbiamo rinunciato all’umanesimo stesso e governiamo la convivenza in un’ottica perenne di scontro con l’altro. La paura – continua Vitiello – si basa su stereotipi e pregiudizi ripetuti che ora fanno anche da base alle politiche di immigrazione. Dal problema del “clandestino”, si è passati al problema del “rifugiato”. Parlandone solo come di un disgraziato, appiattito sulla sua condizione attuale, negando tutta la sua storia precedente, finisce per privarlo della sua umanità, ne fa una cosa e quindi, più facilmente, anche un nemico”.
Alfonso Apicella, che cura le azioni di comunicazione e sensibilizzazione di Caritas Internationalis, ha invece raccontato come si può vincere la paura favorendo la conoscenza reciproca. “La nostra campagna Share The Journey parte dall’iniziativa dei singoli e dei gruppi per aprirsi allo sconosciuto e al diverso, incontrandolo. Ci sono tante persone che non hanno mai parlato con un migrante o con chi scappa da una guerra”. In oltre cento Paesi del mondo le Caritas locali, forti della capillarità sul territorio, hanno organizzato pranzi, pellegrinaggi e iniziative artistiche e culturali che hanno visto accanto “autoctoni”, nuovi arrivati, transitanti e diaspore.
“L’obiettivo di lungo periodo è consolidare l’inclusione sociale”, ha spiegato Apicella. Il solco lo hanno tracciato anche le parole di Papa Francesco: “Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Sì, la loro responsabilità è enorme. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu”, e se stessi come parte di un “noi”. Abbiamo bisogno gli uni degli altri”
A aggiungere al confronto la voce delle istituzioni è Tatiana Esposito, Direttore Generale dell’immigrazione e delle politiche dell’integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “La nostra DG prova a governare la paura con politiche bidirezionali, che agiscono su migranti e società e vogliono alimentare il senso civico, la fiducia nell’altro, la conoscenza, la capacità di sentirsi parte di una comunità. Affrontiamo ciò che fa paura con progetti come PUOI, che inseriscono soggetti più vulnerabili, come titolari di protezione internazionale e umanitaria, in percorsi di lavoro e quindi di integrazione”.
Tra le criticità che rendono tutto più difficile ci sono quelle del nostro mercato del lavoro. “Quale lavoro ci rubano i migranti? Quello per cui si faticava a trovare manodopera anche negli anni di picco della crisi? Hanno un tasso di occupazione più alto, ma spesso pur essendo qualificati occupano posizioni in settori e livelli per quali sono sovra istruiti e sono sottopagati. C’è una corsa al ribasso dei salari e concorrenza sleale? Ma se non si applicano le regole, la colpa è degli occupati o dei datori? Bisogna capire chi sono le vittime. Forse la rabbia è male indirizzata”, suggerisce il Direttore Generale.
Esposito punta il dito contro la cattiva informazione, che amplifica le paure e può generare reazioni inferocite e incidenti gravi. “Non è storia di oggi. Anche il massacro di Aigue Morgues in Francia, nel 1893, nacque da una fake news. Lì i lavoratori stranieri che ‘rubavano il lavoro’ e che furono uccisi dalla folla erano italiani”, ha ricordato Esposito. “Quella cattiva informazione racconta un’immigrazione fatta solo di sbarchi, mentre dimentica quasi quattro milioni di non europei che vivono stabilmente tra noi, o quasi un milione di bambini e ragazzi che studiano con i nostri figli e sono loro amici”.
Anche per questo, la DG Immigrazione investe in conoscenza: “Produciamo ed elaboriamo dati e li mettiamo a disposizione di tutti sul Portale Integrazione, nella convinzione che anche la trasparenza sulle informazioni che orientano le decisioni aiuti la crescita e il consolidamento del senso civico. In questo percorso di miglioramento della società hanno ora una parte attiva anche le nuove generazioni, come dimostra il manifesto del CoNNGI, nel quale propongono il loro punto di vista e indicano le aree critiche sulle quali intervenire”.
“Per costruire la società sicura di domani, dobbiamo costruire oggi una società integrata e coesa”, conclude padre Aldo Skoda, vicepresidente del SIMI. “Quando parliamo di questioni migratorie e populismi, l’individuo si sente piccolo e si chiede se può davvero fare qualcosa di fronte a fenomeni sociali. Ognuno di noi, invece, ha un ruolo attivo nella società. Puntiamo sulla conoscenza, su un supplemento di passione e di responsabilità”. Anche così si governano le paure.