HomeRicerca NewsIn alcuni casi è legittimo vietare velo e altri simboli di culto sul luogo di lavoro



17 agosto 2021

In alcuni casi è legittimo vietare velo e altri simboli di culto sul luogo di lavoro


Secondo la Corte di Giustizia il divieto è legittimo se giustificato dall’esigenza del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali

Una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose (come, nel caso in esame, il velo islamico) non costituisce nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi della direttiva 2000/78/CE (parità di trattamento sul lavoro), se il divieto è giustificato dall’esigenza del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali.

Lo ha stabilito la Corte di Giustizia in una sentenza del 15 luglio scorso, nelle cause riunite C-804/18  e C-314/19

Il caso

La Corte si è pronunciata sul ricorso di due lavoratrici musulmane impiegate presso società di diritto tedesco in qualità di, l’una, educatrice specializzata e, l’altra, consulente di vendita e cassiera. Considerando che l’uso del velo islamico non corrispondeva alla politica di neutralità politica, filosofica e religiosa perseguita nei confronti dei genitori, dei bambini e dei terzi, i rispettivi datori di lavoro ammonivano e sospendevano le lavoratrici a fronte del loro rifiuto di togliere il velo sul luogo di lavoro.
In tale contesto, i due giudici del rinvio hanno deciso di interrogare la Corte di Giustizia in merito all’interpretazione della direttiva 2000/781 . In particolare, alla Corte è stato chiesto se:
- una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose costituisca, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di precetti religiosi, una discriminazione diretta o indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali;
- a quali condizioni l’eventuale differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali che discende da una tale norma possa essere giustificata e quali siano gli elementi da prendere in considerazione nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una tale differenza di trattamento.

La sentenza

Nella sua sentenza, pronunciata in Grande Sezione, la Corte precisa in particolare a quali condizioni una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna al luogo di lavoro, possa essere giustificata.

A tal riguardo, la Corte rileva che il fatto di indossare segni o indumenti per manifestare la religione o le convinzioni personali rientra nella «libertà di pensiero, di coscienza e di religione». Inoltre, ai fini dell’applicazione della direttiva 2000/78, i termini «religione» e «convinzioni personali» vanno trattati come due facce dello stesso e unico motivo di discriminazione.
Peraltro, la Corte ricorda la sua giurisprudenza in base alla quale una tale norma non costituisce una discriminazione diretta ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni.
Nel caso di specie, costata la Corte, la norma controversa sembra essere stata applicata in maniera generale e indiscriminata, dato che il datore di lavoro interessato ha del pari chiesto e ottenuto che una lavoratrice che indossava una croce religiosa togliesse tale segno. La Corte giunge alla conclusione che, in tali condizioni, una norma come quella controversa non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

In secondo luogo, la Corte esamina se una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, possa essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei suoi clienti o utenti. I giudici rispondono in modo affermativo, individuando nel contempo gli elementi che condizionano tale conclusione. A tal riguardo la Corte rileva, anzitutto, che la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può costituire una finalità legittima a fronte di un’esigenza reale del datore di lavoro. Gli elementi rilevanti al fine di individuare una tale esigenza sono, in particolare, i diritti e le legittime aspettative dei clienti o degli utenti e, più nello specifico, in materia di istruzione, il desiderio dei genitori di far educare i loro figli da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali allorché sono a contatto con i bambini. Al fine di valutare la sussistenza di detta esigenza, è particolarmente rilevante che il datore di lavoro abbia fornito la prova del fatto che, in assenza di una tale politica di neutralità, sarebbe violata la sua libertà di impresa , dal momento che egli subirebbe conseguenze sfavorevoli.
Infine, la Corte osserva che il divieto per essere considerato legittimo deve riguardare qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Una politica di neutralità all’interno dell’impresa può- ad avviso dei giudici - costituire una finalità legittima solo se vieta qualsiasi manifestazione visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose e quindi l’uso di qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni.

Corte di giustizia UE, sentenza 15 luglio 2021, cause riunite C-804/18 IX / WABE e.V. e C-341/19