Il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell'infanzia, salvaguardati dalla Costituzione italiana devono essere interpretati anche alla luce delle indicazioni vincolanti offerte dal diritto dell'Unione europea.
Le tutele riconosciute dalla Costituzione e dal diritto Ue, infatti, sono tra loro complementari, proprio perché legate da un nesso di mutua implicazione e di feconda integrazione. È quanto si legge nelle motivazioni dell'ordinanza n. 182 depositata il 31 luglio scorso, con cui la Corte Costituzionale, seguendo la procedura del rinvio pregiudiziale, ha rivolto alla Corte di Giustizia Ue un quesito sul riconoscimento degli assegni di natalità (cd bonus bebé) e di maternità agli stranieri extracomunitari.
Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dalla Cassazione. Si trattava di valutare se, subordinando l'erogazione degli assegni a un periodo di cinque anni di permanenza nel territorio dello Stato, nonché al possesso di un reddito adeguato e di un alloggio, si ponesse in essere un'ingiustificata discriminazione degli stranieri che risiedono legalmente in Italia e versano in condizioni di più grave bisogno.
Secondo la Cassazione, vi sarebbe violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione, ma anche del principio di parità di trattamento tra cittadini europei e cittadini di Paesi terzi, quanto alle prestazioni familiari e di maternità, enunciato dalla direttiva n. 2011/98 Ue, in armonia con il riconoscimento del diritto alle prestazioni di sicurezza sociale sancito dall'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali Ue.
Sia sulla questione dell'assegno di maternità che su quella relativa al bonus bebè è da anni in corso un notevole contenzioso giurisprudenziale che ha visto i giudici di merito esprimersi molte volte a favore dell'estensione delle due prestazioni assistenziali anche agli stranieri non in possesso del permesso Ue per lungo soggiornanti, sulla base della diretta applicabilità nel nostro ordinamento dell'articolo 12 della Direttiva 2011/98/UE. Tale articolo, infatti, prevede che i lavoratori dei paesi terzi, beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne, tra l'altro, le prestazioni di malattia e di maternità.
La Corte costituzionale ha chiesto alla Corte di Lussemburgo di chiarire se la normativa italiana - che subordina alla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo la concessione agli stranieri degli assegni di natalità e di maternità - sia compatibile con l'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che prevede il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale, e con l'articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, sulla parità di trattamento tra cittadini di Paesi terzi e cittadini degli Stati membri.
Con riguardo all'assegno di natalità, la Corte costituzionale ne ha identificato, accanto alla finalità premiale, una concorrente funzione di sostegno alle famiglie in condizioni economiche precarie. Esso, pertanto, potrebbe essere qualificato come "prestazione familiare" secondo il diritto dell'Unione (articoli 1, lettera z, e 3, paragrafo 1, lettera j, del regolamento CE n. 883/2004), con la conseguente applicazione del principio di parità di trattamento.
Il quesito preliminare riguarda anche l'assegno di maternità e la sua riconducibilità all'articolo 34 della Carta, letto alla luce del diritto secondario, volto ad assicurare a tutti i cittadini di Paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente negli Stati membri «uno stesso insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento», vincolando gli Stati ospitanti a osservare quest'obbligo.
In attesa della pronuncia della Corte di Lussemburgo, tutti i giudizi restano sospesi.
Leggi ordinanza n. 182 dell'8 luglio 2020