HomeTutte le recensioni (2015-2020)



Tutte le recensioni (2015-2020)

CONSIGLI DI UMANITÀ DI ELVIRA MUJCIC
Un romanzo che racconta le difficoltà di essere migranti in Italia

«Ieri ho visto l'avvocatessa» disse Ismail.
«Per il ricorso?».
«Sì. È strano rispondere alle domande qui in Italia».
«In che senso?».
«Non so, è come se le domande che ti fanno non sono mai quelle alle quali tu hai la risposta; se hai tre opzioni, nessuna è quella che vuoi dire. Sembra sempre che devi scegliere una cosa vicina a come è e piano piano ti dimentichi di com'è davvero. Sai quando chiami quei numeri dove risponde la voce in automatico e ti dice "premi uno se hai questo problema, premi due se hai questo…", e tu non sai cosa schiacciare, perché il tuo problema non è in queste tre o quattro possibilità?!».

Così Elvira Mujcic traduce in chiave narrativa un dialogo ordinario di una giornata ordinaria di un ragazzo proveniente dal Gambia, Ismail, che le chiede "come essere un bravo immigrato", facendo così riferimento a quello che la società di accoglienza, e nella fattispecie la commissione territoriale che ha in mano il suo destino e che ha già respinto una volta la sua richiesta d'asilo, vorrebbe da lui. Anche lei, scrittrice di origini bosniache, è arrivata in Italia come migrante per sfuggire alla guerra nei Balcani. Sa bene cosa significa essere migranti.

Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot 2019) racconta con amara ironia di queste difficoltà, quelle nascoste agli occhi di tutti, che conosce soltanto chi le prova in prima persona. Perché non sempre si hanno le parole per spiegare il dolore di dover lasciare la propria terra e i propri famigliari, ma soprattutto non sempre si ha la forza di essere come gli altri vorrebbero, ben inquadrati in una "categoria di migrazione" che risponda a specifiche motivazioni. La realtà è molto più complessa e la burocrazia non sempre, per sua stessa costituzione, riesce a racchiuderla.

Con questo breve romanzo Elvira Mujcic restituisce al lettore il lato umano, intimo, delle persone che hanno avuto come unica scelta quella di migrare. Persone che però non vogliono rimanere "immigrati" tutta la vita, ma che intendono far parte della società in cui vivono, integrarsi, contribuendo a essa, come nel caso stesso di Elvira. Un'ambizione che spesso viene frenata da pregiudizi e stereotipi che rimangono addosso come ombre.

Per "essere un bravo immigrato", in definitiva, è sì necessario adeguarsi agli iter burocratici e riuscire a dimostrare di avere il diritto di rifarsi una vita lontano dalle difficoltà incontrate nel proprio paese d'origine, ma anche incontrare una comunità aperta, accogliente, che sia capace di vedere in lui, oltre a un migrante, un essere umano che ha le stesse esigenze di chiunque altro di condurre una buona vita.

Ecco perché questi, più che consigli ai migranti, sono veri e propri "consigli di umanità" con cui tutti dovrebbero fare i conti.


"FUTURE. IL DOMANI NARRATO DALLE VOCI DI OGGI"
La prima antologia di racconti di autrici afroitaliane

Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (effequ 2019), a cura della scrittrice italosomala Igiaba Scego, riunisce per la prima volta le voci di autrici afroitaliane (Leila El Houssi; Lucia Ghebreghiorges; Alesa Herero; Esperance H. Ripanti; Djarah Kan; Ndack Mbaye; Marie Moïse; Leaticia Ouedraogo; Angelica Pesarini; Addes Tesfamariam; Wii - con prefazione e postfazione rispettivamnete di Prisca Agustoni, Camilla Hawthorne) con l'obiettivo di dare al lettore un nuovo strumento di lettura utile per orientarsi in un'Italia contemporanea che, a dispetto dell'apparente immobilità, sta cambiando e continuerà a cambiare.
Tra realtà e immaginazione, racconti, documenti, lettere, testimonianze, le autrici ci accompagnano in un viaggio alla ricerca delle loro radici, passando per le difficoltà vissute in una società diffidente, per infine spingerci a riflettere su un concetto fluido come quello di seconda generazione, o addirittura (ormai) terza o quarta. È anche per questo che i giovani italiani con background migratorio oggi si definiscono più inclusivamente "nuove generazioni".

Ma questo libro, come racconta Igiaba Scego nella sua nota di presentazione dell'opera, rappresenta anche altro: "Il libro che avete in mano è di fatto un moderno J’accuse. Giovani e meno giovani donne italiane di origine africana hanno preso in mano una penna, o più realisticamente il loro computer, e hanno scritto dei racconti che ci parlano di futuro", un futuro che quindi immaginano e desiderano diverso, in cui le difficoltà da loro vissute (o vissute dai loro genitori in quanto migranti) a casua della loro condizione - di donne oltre che di nuova generazione - saranno soltanto un ricordo. E tutto questo attraverso un libro? Sì, perché come scrive ancora Scego: "La letteratura (almeno per me) significa farsi delle domande che scuotono sia l’attualità sia l’essenza profonda della nostra umanità", per rimettere in discussione idee, opinioni e visioni.

Il futuro non dev'essere soltanto immaginato, può essere anche scritto.


"CHINAMEN. UN SECOLO DI CINESI A MILANO"
La ricostruzione a fumetti di cento anni di storie di migrazione e integrazione cinese in Italia

Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano (BeccoGiallo, 2017) di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte è un saggio a fumetti che ricostruisce cento anni di storie di migrazione e integrazione cinese in Italia, e in particolar modo a Milano.
Questa storia inizia in una Milano in pieno fermento culturale durante l'Esposizione Universale del 1906. Tra i 200 edifici costruiti per ospitare i vari padiglioni anche uno dedicato alla Cina, un Paese che incuriosiva molto perché di esso si sapeva poco. Wu QianKui fu uno dei primi commercianti di statuine in pietra e tè, già partecipe delle grandi fiere in Francia e in Belgio, a iniziare una proficua collaborazione con un meneghino, Cesare Curiel, introducendolo inoltre, insieme agli altri commercianti e personaggi di spicco italiani, al Padiglione della Cina tra capi della Compagnia Imperiale e vicerè della Cina Tuang Fang.
Ma furono gli anni Venti a vedere il primo vero e proprio flusso migratorio cinese in Italia, seppur esiguo, con i commercianti di perle cosiddette matte per la loro bellezza a basso costo e successivamente di cravatte. La stampa di allora accolse questo fenomeno con grande scalpore, dedicandogli non poco spazio.
I serrati cambiamenti nazionali e internazionali, le guerre e le diffidenze da essa generate segnarono profondamente i rapporti tra Italia e Cina, i quali, seppur passando per periodi oscuri come il fascismo e con esso la prigionia dei cinesi migrati in Italia nei campi di concentramento, videro la nascita delle prime comunità cinesi e nel tempo, naturalmente, il loro radicamento con la nascita, dopo la Seconda guerra mondiale, delle prime famiglie miste.
Con l'apertura dei primi ristoranti cinesi in Italia – nel 1949 a Roma e nel 1962 a Milano – i cinesi ormai integrati in Italia dimostrarono una forte volontà e capacità imprenditoriale, la quale venne successivamente incarnata anche dai grandi imprenditori italo-cinesi degli anni Sessanta e Settanta.
Chinamen, oltre ad essere un libro particolarmente affascinate dal punto di vista grafico, è frutto di una ricerca unica nel suo genere, con interviste e documenti inediti, e ha il merito di custodire fra le sue pagine la memoria storica di un fenomeno poco conosciuto perché poco raccontato, ma che le nuove generazioni italiane non possono non conoscere.
Chinamen è anche una mostra, a cura di Daniele Brigadoi Cologna in collaborazione con Matteo Demonte, che è stata allestita al Mudec dal 14 di marzo al 17 aprile 2017, e un documentario a cartoni animati realizzato dagli stessi autori Ciaj Rocchi e Matteo Demonte.


"SOTTO IL VELO" DI TAKOUA BEN MOHAMED
Un fumetto come strumento di riflessione e dialogo

L'arte deve scuotere. Non importa se provocando sgomento, riso o tristezza. Ciò che importa è che da queste reazioni, e proprio a causa loro, nasca in noi una riflessione. Su qualcosa che non sapevamo o, peggio, pensavamo di sapere ma in modo completamente sbagliato; su qualcosa che non ci eravamo mai chiesti o che non pensavamo importante. E invece lo è. È importante conoscere la realtà, rincorrere le sue sfaccettature per non rischiare di confonderle e vivere soltanto secondo il nostro sguardo limitato, come fossimo soli sulla terra.
L'arte è sincera, combatte le ipocrisie, è universale e senza limiti. Per questo, se adeguatamente proposta, può essere un'eccezionale strumento di riflessione e di indagine del mondo – esteriore e interiore.
Leggere un fumetto come Sotto il velo (BeccoGiallo, 2016) di Takoua Ben Mohamed può sembrare un atto senza conseguenze, ma non lo è. L'autoironia della protagonista – una ragazza che vive in Italia e che porta il velo – è contagiosa, e raccontando con semplicità la sua vita quotidiana, fa molto pensare. Fa pensare a quanto conosciamo poco le culture e tradizioni che non siano quelle in cui siamo nati e cresciuti e a quanto sia stupido qualsiasi pregiudizio – lo dice la parola stessa: essendo uno stato che precede il giudizio, frutto della ragione, è qualcosa di irragionevole cristallizzato in noi per ignoranza e mancanza di volontà di capire. Fa pensare a quanto di arbitrario e supponente ci sia nel considerare un'abitudine o una scelta identitaria migliore o peggiore di un'altra, giusta o sbagliata.
Non è un libro che vuole spiegare, ma spinge a voler conoscere, semplicemente mostrando ciò che può accadere e che accade ogni giorno mentre siamo impegnati a non farci caso e andare avanti, senza guardare, per la nostra strada.
Un elemento molto significativo che emerge dalle storie narrate da Takoua è il fatto che la protagonista (come del resto la stessa autrice) sia una "seconda generazione" – meglio sarebbe dire nuova generazione -, ossia una ragazza nata in Tunisia e cresciuta fin da piccola in Italia. L'essere portatrice sana di due culture non è per lei causa di crisi identitarie, ma al contrario una grande ricchezza e fonte di una preziosa sensibilità nei confronti di qualunque altra cultura.
Uno strumento di riflessione e dialogo, dunque; un libro che potrebbe essere occasione di scoperta del mondo per i ragazzi delle scuole, i quali, forse, vivendo ormai fin da piccoli in un contesto multiculturale, non ne hanno bisogno. Di sicuro ne hanno però bisogno i loro genitori – che poi sono le persone che fanno la società e che hanno il potere di cambiarla - a cui questo fumetto, che si legge davvero in poco tempo, è vivamente consigliato.


"EMIGRANIA. I FIORI DEL MARE", UN VIAGGIO NEI RICORDI DI UN RIFUGIATO
Un graphic novel che nasce dall’esperienza di accoglienza promossa da Refugees Welcome Italia

Di là le notti duravano anni,
tra i fischi e gli stivali
a non sapere scegliere
se aspettare di prendere sonno
o tutta la vita dentro una valigia.

Il graphic novel Emigrania. I fiori del mare (BeccoGiallo, 2019) racconta la storia di Moussa, migrante originario della Costa d'Avorio ospite per sette mesi a casa di due giovani di Milano, Daniele e Valentina, grazie a Refugees Welcome Italia (RWI) - associazione nata nel 2015 per promuovere il dialogo fra culture, mettere in contatto le persone e permettere loro di raccontare la propria storia dal proprio punto di vista. Esattamente quello che accade in questo libro, in cui Daniele Bonaiuti, con le intense illustrazioni di Alessandro Cripsta, raccoglie vividi frammenti di testimonianze del suo nuovo coinquilino a proposito della sua vita nel suo paese d'origine e del suo lungo viaggio per arrivare in Italia. Storie di dolore, difficoltà, scoramento, ma anche di speranza e nuove possibilità: Moussa alla fine riuscirà a farsi assumere in Italia a tempo indeterminato.
Moussa, quando va a vivere da Daniele e Valentina, ha 31 anni, ma aveva lasciato la Costa d'Avorio travagliata dalla guerra civile diversi anni prima. Dopo aver attraversato il deserto arriva in Libia, dove la violenza generalizzata lo convince a compiere anche la traversata del Mediterraneo verso l'Italia, su un gommone fatiscente prima e su una nave della Marina Italiana poi. Arriva a Messina, resta tre mesi in un centro della Croce Rossa per poi essere destinato a un centro d'accoglienza di Sesto San Giovanni, dove rimane per tre anni.
Il racconto è un viaggio onirico nei ricordi dal forte impatto visivo, i cui colori dominanti sono il blu e il rosso, e rievoca la vita di Moussa mettendola inevitabilmente a confronto con la nostra società, con le contraddizioni e i pregiudizi che tutti i migranti vivono quando arrivano in Italia. Lo stesso titolo del libro, emigrania, è un gioco di parole che evidenzia le difficoltà dell'accoglienza nel nostro Paese, spesso vissuta come un disagio, un fastidio, e non come un'opportunità.
Intento dichiarato di Emigrania è quello di spronare il lettore a mettersi in discussione, proprio come fa Makkox nella sua prefazione, ricordando il suo impegno, limitato alla penna, nell'aiuto dei migranti in difficoltà. Esistono invece modi per aiutare concretamente donne e uomini in fuga dal proprio paese, come quello raccontato in questo libro, ovvero l'accoglienza in famiglia, semplice ma potente gesto che può aiutare a far ritrovare un po' di normalità e serenità a persone che le hanno perse.


"ANCHE SUPERMAN ERA UN RIFUGIATO. STORIE VERE DI CORAGGIO PER UN MONDO MIGLIORE"
Un libro a cura di UNHCR e Igiaba Scego

Anche Superman era un rifugiato. Storie vere di coraggio per un mondo migliore (Piemme 2018) è un libro curato da UNHCR (l’Agenzia ONU per i Rifugiati) e Igiaba Scego, una delle dodici voci di scrittrici e scrittori italiani (gli altri sono: Davide Morosinotto, Helena Janeczek, Paolo Di Paolo, Francesco d’Adamo, Patrizia Rinaldi, Flora Farina, Carlo Greppi, Lilith Moscon, Alessandro Raveggi e Giuseppe Palumbo) che raccontano in queste pagine le storie di rifugiati di oggi, del passato e del nostro immaginario collettivo - come Superman, appunto, costretto a fuggire dal suo pianeta sull’orlo dell’esplosione (lo racconta e illustra a fumetti Giuseppe Palumbo).

Ogni storia di questo libro percorre due binari paralleli in cui le vicende dei rifugiati di oggi – incontrati e intervistati direttamente dagli autori – si intrecciano a quelle dei rifugiati di ieri, illustri scrittori, artisti, eroi epici come Dante, Freddie Mercury ed Enea – che un tempo non erano chiamati rifugiati ma esuli, esiliati, perseguitati.

Ritroviamo così donne e uomini che sono fuggiti da guerre, violenze e privazioni, accumunati dalla voglia di vivere e realizzarsi, portando a compimento le proprie passioni, cercando in tutti i modi – rischiando la vita in rocamboleschi e disperati viaggi (gli unici possibili per fuggire) – un luogo in cui poter tornare o incominciare a respirare senz’affanno. Donne e uomini, dunque, pieni di speranza, ma d’altro canto pieni di paura per quello che hanno vissuto e per quello che potrebbero vivere nei lidi sconosciuti d’approdo. Una paura che tuttavia, quasi per necessità, fa nascere nei loro animi il coraggio per affrontare le insidie che li attendono. Con un unico grande obiettivo: avere un’altra possibilità, anche perché non è colpa loro se sono stati costretti a fuggire. L’alternativa è spesso solo la morte.

È questa la forza della letteratura: riuscire ad avvicinare le persone a un fenomeno, ricco e complesso come quello dei rifugiati, che i mezzi di informazione riducono a numeri spogliati di umanità. Nelle storie narrate degli individui, invece, ritroviamo emozioni, sentimenti e desideri, che sono quelli di tutti. E poi c’è la scoperta della nostra storia comune, di passati a noi sconosciuti, ma che nel loro emergere possono insegnarci a guardare le cose in modo nuovo, aldilà di pregiudizi, luoghi comuni o semplice non conoscenza.

Ad arricchire i racconti le illustrazioni di Fabio Santomauro, Marino Neri, Laura Scarpa, Rita Petruccioli, Giovanni Scarduelli, Fabio Visintin, Marco Brancato, Tiziana Romanin, Laura Riccioli, Mariachiara Di Giorgio, Francesco Chiacchio e Marco Paschetta.

Completano il libro la prefazione di Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR per il Sud Europa – Agenzia ONU presente il 128 paesi che dal 1951 fornisce protezione e assistenza a rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni e apolidi – e la testimonianza diretta di Alidad Shiri, arrivato in Alto Adige dall’Afghanistan nel 2005 e ora in procinto di laurearsi all’Università di Trento. Il suo “invito” termina con queste parole: “Penso alle persone che stanno arrivando adesso: vanno incontro a tantissimi rifiuti e affrontano difficoltà di ogni tipo per essere riconosciute come esseri umani. Vorrei invitare voi lettori, grandi o piccoli, a fare leva sulla vostra sensibilità e umanità: non c’è nessun motivo, nessuna giustificazione, per trattare male chi è arrivato o arriva, rispedendolo al mittente come fosse un pacco indesiderato. La maggior parte dei rifugiati ha vissuto situazioni ancora peggiori della mia. Il mio non è un manifesto politico: è un semplice invito all’umanità.”


"A SCUOLA IL MONDO CONTA"
Percorsi e attività di mediazione e comunicazione interculturale

A scuola il mondo conta. Percorsi e attività di mediazione e comunicazione interculturale (edizioni la meridiana, 2018) di Silvia Rizzello, giornalista, mediatrice interculturale e docente di didattica dell'italiano per stranieri, è un utile stumento per chi vive la scuola, ambiente fondamentale per la formazione dei cittadini del domani. Anche perché, "quanto accade nella scuola - scrive l'autrice - non è altro che lo specchio fedele di ciò che avviene fuori, nella vita di tutti i giorni". Ecco spiegata la necessità di prestare particolare attenzione all'ambiente scolastico e alla didattica, cercando di adottare metodi efficaci per favorire e promuovere l'integrazione.
In questo libro, il metodo proposto adottato e sperimentato dall’autrice, "è da intendersi come un preparare il terreno a diventare fertile in una realtà sempre più plurale, a misura di differenze". Scrive Silvia Rizzello: "le nostre radici culturali, che devono pur restare quale tratto distintivo dell’identità di ciascun individuo, dovrebbero essere considerate una delle tante sfumature di una tavolozza di colori da cui tutta la collettività possa attingere e trarne giovamento, con l’obiettivo di cogliere il meglio di ogni cultura per una società interconnessa in cui ognuno possa occupare un posto, rivestire una funzione, quella più consona alle proprie caratteristiche, attitudini ed esperienze, per la realizzazione del bene comune. Meglio, quindi, educare alle sfumature, alla pluralità, insegnare che nelle diversità c’è più gusto".
"Nella mediazione interculturale ciò che conta non è il risultato [...], ma quello che accade proprio dal basso, in maniera orizzontale; appunto, tra i banchi di scuola".


"LA BALLATA DI CIRCE"
Una storia di amori, migrazioni e caporalato

La ballata di Circe (Stampa Alternativa, 2017) di Daniele De Michele è la storia di Mohammed, un ragazzo turco che ama il punk e per questo viene chiamato da tutti Joe Strummer, come il cantante dei Clash. È l'Ulisse di questa rivisitazione in chiave attuale del poema epico di Omero, il protagonista di un burrascoso viaggio costantemente messo alla prova, di fronte ai pregiudizi degli esseri umani, che possono spesso sfociare in soprusi e violenza.
Joe è infatti costretto ad abbandonare la sua Ankara per aver amato Nina, moglie di un boss, il quale, scoperto la loro liaison, la uccide. Fugge così, pieno di sensi di colpa, alla volta dell'Inghilterra sognando di poter vivere di musica. Il suo viaggio per mare lo porterà però in Salento in un Centro di Permanenza Temporanea: "Non era un bel posto. C'era chi fuggiva per essersi opposto a un regime ingiusto, chi aveva denunciato un criminale, chi era scappato da luoghi con pochi ricchi e tantissimi poveri. Alcuni vi restavano per tanto, perdendo la nozione del tempo, smarrendo la ragione, non comprendendo il senso di quella coercizione".
È così che Joe decide di fuggire anche da quel luogo, percepito come una prigione, condannandosi a diventare un "irregolare" il quale, per sopravvivere, avrebbe dovuto lavorare quindici ore al giorno nei campi alle dipendenze di Polifemo, il caporale della zona, andando in tal modo ad alimentare l'illegalità del sistema, ormai diventato propulsore dell'economia locale: "cinque euro a Joe Strummer, cinquanta a Polifemo, cinquecento alla mafia, cinquemila alle grandi catene di supermercati".
Tutto sembra filare secondo i piani di Polifemo, fino a quando Joe non è costretto a ribellarsi, scosso ancora una volta dalla violenza su una donna, Circe, che difenderà per poi innamorarsene.
Daniele De Michele, vero nome di donpasta, con questa sua prima opera narrativa abbandona lo pseudonimo con cui si è fatto conoscere per dare vita a una storia leggendaria d'amore, di speranza e di sogni, da una parte, e di difficoltà e sofferenza dall'altra, che ha però molti punti di contatto con la realtà attuale. Le peripezie di Ulisse diventano qui le difficoltà che si trovano ad affrontare quotidianamente i migranti nei loro lunghi viaggi, e l'ingiustizia del Polifemo mitico la realtà di molte terre in mano al caporalato, un fenomeno diffuso ma poco conosciuto. Ma La ballata di Circe è anche una storia.


"LA CREPA" DI CARLOS SPOTTORNO E GUILLERMO ABRIL
Un graphic novel che racconta i confini dell’Europa

La crepa (add editore, 2017) è il racconto di un viaggio di tre anni lungo i confini che separano le speranze dei migranti da quello che è da loro visto come il luogo migliore da cui reiniziare a vivere: l'Europa.
I due narratori, entrambi spagnoli, sono il fotografo Carlos Spottorno e il giornalista Guillermo Abril. I linguaggi utilizzati dai due sono quello del graphic novel e del reportage giornalistico, in cui le immagini, le fotografie di Spottorno – modificate in modo tale da conferire loro una parvenza di paradossale irrealtà, come fossero un fumetto – si fondono al testo di Abril, breve, d'impatto, per lasciare al lettore/spettatore lo sguardo libero e di immedesimarsi nelle storie narrate.
L'idea del viaggio nasce sotto le sollecitazioni del giornale El País Semanal, il quale, dopo la prima delle grandi tragedie legate all'immigrazione recente (la morte di 366 migranti nell'ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa) a seguito delle Primavere arabe e dello scoppio della guerra in Siria, vuole raccontare ciò che sta succedendo ai confini europei e che in pochi, a causa delle numerose difficoltà che i due avrebbero sperimentato in prima persona, stanno raccontando.
È così che nel gennaio 2014 Abril e Spottorno partono per Melilla, un'enclave spagnola in Africa di 12 chilometri quadrati, una piccola striscia di terra stretta tra Marocco e Mediterraneo. Qui, tra recinzioni, polizia e le impressionanti immagini di uomini e donne che cercano di scavalcare le reti - e così mettere piede in Unione europea - per guadagnarsi un futuro, i due si ritrovano nel mezzo di quella crisi umanitaria che testimonieranno per i tre anni successivi lungo altri luoghi di confine come la Turchia, Lampedusa, l'Ungheria, l'Ucraina, la Finlandia.
Dopo 25.000 foto, 15 quaderni di appunti, decine di articoli e un World Press Photo vinto (2015), Abril e Spottorno decidono di rielaborare il materiale raccolto pubblicando questo libro sulle frontiere dell'Unione europea. L'obiettivo è quello di far conoscere ciò che succede realmente ai confini, di cui troppo spesso abbiamo una visione distorta e incompleta; ma anche e soprattutto cercare di comprendere quelle crepe, appunto, dell'Unione europea, evidenti nelle difficoltà di gestione del fenomeno migratorio, che stanno ridefindnedo la sua (e la nostra) identità.
La scelta di quella paradossale irrealtà con cui le fotografie sono state ritoccate conferisce all'opera una forza espressiva di grande impatto emotivo che "inganna" momentaneamente il lettore/spettatore, il quale potrebbe credere di trovarsi all'interno di una storia di fantasia, e la cui "riemersione" dall'opera, nella consapevolezza della drammaticità reale dei fatti raccontati, risulta così ancor più significativa.


LE "MIGRAZIONI" SECONDO MARC AUGÉ
Per un'antropologia della mobilità

In Migrazioni (Castelvecchi, 2018) ritroviamo il celebre antropologo Marc Augé (Poitiers, 1935) in un breve dialogo dal ritmo serrato con Anna Mateu (giornalista) e Domingo Pujante González (professore dell'Università di Valencia) sul fenomeno migratorio. E non è un caso che un antropologo si interessi a queste tematiche, perché "l'antropologo si occupa sempre di attualità", e il mondo in cui viviamo oggi ha fra le sue caratteristiche essenziali quella della "mobilità" - in verità lo è sempre stata: "se è vera l'ipotesi che la popolazione del pianeta si è prodotta a partire dall'Africa, ciò vorrebbe dire che l'essenza dell'umanità è il movimento, che nella nostra epoca segue però un altro ritmo".
E come fare dunque a decostruire i pregiudizi che la figura del migrante porta con sé e l’assenza di morale della politica dei governi occidentali (i quali "parlano continuamente di diritti umani, però difettano di politiche che rispettino tali principi") che frena l'integrazione? Secondo l’antropologo francese "tutti dobbiamo riflettere sui problemi dell'integrazione", e continua: "a mio avviso, l'ideale è quello dell'Illuminismo, cioè l'assenza di contraddizioni tra lo sviluppo indiviuale e quello collettivo. Questi sono precisamente i diritti umani che si possono materializzare solo attraverso la difesa dell'individuo, perché in lui si incarna l'uomo in senso generico. Non credo che una cultura sia la frontiera adeguata, perché all'interno di ogni cultura esistono grandi diseguaglianze e ciò implica accettare l'oppressione di alcuni su altri".
In questa "antropologia della mobilità" fondamentale è il "tentativo di ricongiungimento poetico con l'altro", poiché è proprio attraverso questo incontro che è possibile scorgere l’essenza stessa dell’umano.


"L'IMMIGRAZIONE SPIEGATA AI BAMBINI, IL VIAGGIO DI AMAL"
Un libro per cominciare a parlare di migrazione con i più piccoli

L'immigrazione spiegata ai bambini, il viaggio di Amal è un libro edito da BeccoGiallo, scritto da Marco Rizzo e illustrato da Lelio Bonaccorso, pensato come strumento per cominciare a parlare di migrazione con i più piccoli.
I due autori, entrambi siciliani, testimoni di tante storie di migranti arrivati in Sicilia, tentano così di spiegare anche ai bambini cosa sta succedendo nel mondo con un linguaggio a loro adeguato.
La storia è presentata come una favola in cui quattro animali seguono i loro padroni umani in un lungo viaggio per mare alla ricerca di una vita migliore. I quattro animali, proprio come fossero bambini, e quindi privi di pregiudizi e sovrastrutture, iniziano a parlarsi raccontando le loro storie e cosa ha portato i loro padroni a salire su quella barca.
La gatta nera Amal fugge dalle bombe del suo Paese, il fedele cane Joe dalla guerra in nome di un dio, la magra capretta senza nome dall'estrema povertà seguita alla guerra, e il fiero falco Alqamar dalla privazione della libertà. Tutti quanti vogliono solo stare bene insieme ai loro padroni.
Purtroppo l'uomo che guida la barca non sembra essere molto interessato ai suoi passeggeri e preferisce dividere una scatoletta di tonno, quando aveva detto loro che non c'era niente da mangiare, con un gabbiano anch'esso guidato solo da interessi personali.
Quello che succede dopo non lo sveliamo, ma il lieto fine mette a posto tutto, perché bisogna ricordare che la migrazione non è sinonimo di tragedia, ma soprattutto di speranza.


"L'ISOLA DEI GIUSTI. LESBO CROCEVIA DELL'UMANITÀ"
Il libro di Daniele Biella

«Mi arrabbio e divento una furia, quando sento di qualcuno che dice cose contro i profughi. […] Ebbene, spero che chi la pensa così un giorno provi sulla sua pelle cosa significa diventare profughi, viva fino in fondo il trauma della guerra o delle violenze indiscriminate in patria, il dolore di lasciare tutto e l'incognita del futuro. Forse così potrà capire».
A parlare è uno dei sette protagonisti de L'isola dei giusti - libro di Daniele Biella edito nel 2017 da Paoline -, Stratos Valamios, abitante dell'Isola greca di Lesbo che quotidianamente affronta il mare con la sua piccola barca da pescatore, da volontario, per salvare i migranti in difficoltà. Gli abitanti di Lesbo vivono direttamente il dramma di esseri umani che sono costretti a lasciare tutto, a causa di guerre, persecuzioni, discriminazioni, miseria o calamità naturali, ce l'hanno sotto gli occhi ogni giorno e non possono – non vogliono – certo rimanerne indifferenti. È la "normalità del bene" di cui parla Biella, contrapposta alla "banalità del male" di chi "dice cose contro i profughi" di cui parla Stratos Valamios; di chi vede ciò che accade soltanto attraverso lo schermo della televisione, senza pensare che quel che vede possa mai un giorno doverlo toccare, né da una parte né dall'altra, né come vittima né come "salvatore"; e soprattutto di chi addirittura sfrutta la sofferenza altrui per un tornaconto personale. Inoltre, e non è un fattore da sottovalutare, l'isola di Lesbo è stata protagonista d'accoglienza anche non molto tempo fa, nel 1922, quando la fine della guerra fra Turchia e Grecia costrinse i cittadini di origine greca presenti da generazioni sul territorio turco a fuggire verso la loro terra d'origine. Qui, a Lesbo, vennero aiutati e accolti, e i nipoti di quei fuggitivi hanno ancora oggi impresso nella memoria quegli istanti.
È probabilmente la salvaguardia della memoria a caratterizzare la filoxenia ("l'amore per lo straniero") degli abitanti di Lesbo, e in particolare dei sette protagonisti del libro di Biella: Emilia, Eric, Melinda, Christoforos, Daphne, Efi e lo stesso Stratos. Attraverso le loro storie di vita, Biella, ci racconta di migliaia di altre vite salvate da morte certa o aiutate a ritrovare il cammino per una nuova "normalità". Sono infatti circa seicentomila persone, sette volte tanto gli abitanti della stessa isola, che tra la primavera del 2015 e quella del 2016 giunsero sulle coste di Lesbo: siriani, afgani, iracheni, pachistani, bengalesi e molti anche dal continente africano.
L'appello comune dei sette "giusti" protagonisti di queste storie, simbolo di un'intera comunità, è rivolto all'umanità tutta e in particolare alle sensibilità dei governi. Emilia e Stratos, per il loro impegno, sono stati entrambi candidati al Nobel per la Pace 2016, ma il loro sogno non sarebbe stato quello di riceverlo, bensì vedere «un anno in cui non ci sia da nominare nessuno per il Nobel, perché sarebbe l'anno migliore per la Pace».
Memoria, empatia e umanità emergono così dalle pagine del libro, nelle narrazioni dell'autore e nelle parole vive dei "giusti", che diviene così uno "strumento" privilegiato di conoscenza, una lettura autentica e profonda della realtà che ha lo scopo di far riflettere il lettore spronandolo a guardare sotto un'altra luce la situazione che stiamo vivendo.


"MIGRANTI"
Le storie dei migranti raccontate da loro stessi

Migranti (Castelvecchi editore, 2018) di Domenico Di Cesare presenta al lettore quindici interviste che raccontano le vicende di alcuni migranti arrivati nel nostro Paese. Sono dunque gli stessi migranti a parlare e a raccontarsi, dando così spazio a un'"arte della relazione" in cui dialogo e memoria sono liberi di emergere e tratteggiare i contorni di una storia reale e vissuta, che porta sempre con sé desideri e speranze per l'avvenire.

Le storie personali presenti nel libro non sono certo facili da raccontare - parlano di violenze, di guerre, di omofobia, di prostituzione, di condanna a morte e di ciò che i migranti si lasciano alle spalle: dalle drammatiche vicende del loro viaggio all’accoglienza e al percorso, a volte non riuscito, di integrazione -, ma è necessario che ci vengano raccontate e soprattutto che le ascoltiamo, per capire in profondità che cosa spinge alcuni esseri umani a fuggire dai propri paesi e a che cosa vanno incontro nei loro viaggi verso quella che sperano essere una migliore condizione di vita, o perlomeno degna.

"Le singole storie qui raccolte - scrive l'autore - cercano di rendere, pur nella loro crudezza, quello che i migranti si lasciano alle spalle, che cosa accade nei loro viaggi, il modo in cui vengono accolti, il loro percorso di integrazione e la loro meta, racchiusa nella frase di Jasmine, una delle ragazze intervistate: 'Il mio Paese è dove troverò pace'".

E, come scrive Erri De Luca nella prefazione al libro, è molto importante non dimenticarsi della forza della cultura, in questo caso dei libri, a cui il poeta fa riferimento quando parla di "vocabolario". Questo affinché vengano contrastati pregiudizi, notizie false e luoghi comuni, e un certo tipo di intolleranza da essi causata. Scrive De Luca: "Definire dei singoli disarmati col nome di invasori è spaccio di moneta falsa. Il nostro vocabolario serve a difenderci dai falsari che lo distorcono per intossicare l'organismo sociale di una comunità".


"NOI MIGRANTI"
Per una poetica della relazione

Noi migranti. Per una poetica della relazione (Castelvecchi editore, 2018) di Paola Gandolfi, docente di Migrazioni trasnazionali e sperimentazioni educative presso l'Università di Bergamo, articola in modo innovativo alcune idee relative al fenomeno migratorio che i maggiori ricercatori a livello internazionale hanno discusso negli anni recenti. "La finalità - scrive l'autrice - è di ritornare su alcuni concetti fondamentali della mobilità migratoria che funzionano da chiavi di lettura della nostra realtà, nell'intento di capirne la portata e le implicazioni anche nelle nostre pratiche educative quotidiane e nei nostri contesti scolastici".
Elaborare un linguaggio comune da cui ripartire, questo l'obiettivo ultimo delle pratiche esposte da Paola Gandolfi nel testo. Ciò a partire dalla necessità di fornire una narrazione alternativa delle migrazioni rispetto a quella veicolata dai media e dall'attuale opinione pubblica (in cui non è difficile ritrovare pregiudizi o semplificazioni distorte dei fatti), una narrazione che invece renda conto della complessità del fenomeno, tentando di essere il più possibile aderente alla realtà.
La "poetica della relazione" di cui parla l'autrice si rifà al concetto di Edouard Glissant per cui è necessario ripensare il rapporto con l'altro "a partire anche dai luoghi dell'educazione e della formazione, quei luoghi dove di potrebbe e dovrebbe, come sostiene Edgar Morin, 'insegnare e vivere' [...] Perché la responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni future si gioca intorno a questo compito culturale, ovvero la trasformazione di conoscenze in sapienze e la tessitura di capacità relazionali che ci permettono di vivere insieme nei nostri complessi e conflittuali contesti contemporanei".


100 DONNE MIGRANTI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO
Storie di vita e migrazioni per corrodere pregiudizi e stereotipi

Il terzo capitolo della serie Storie della buonanotte per bambine ribelli (Mondadori 2020) è dedicato a 100 donne migranti che hanno cambiato il mondo raccontate da Elena Favilli – autrice bestseller anche lei migrante (trasferitasi dall'Italia agli Stati Uniti) – e ritratte da sessanta artiste internazionali.
È un libro dedicato alle bambine ribelli, che l'autrice definisce come "persone che cercano di migliorare il mondo per loro e per chi le circonda, a qualunque costo". Ma la ricchezza delle esperienze racchiuse in queste pagine è patrimonio di tutti (grandi e piccoli, donne e uomini) – sono storie di vita e migrazioni che meritano di essere conosciute per il loro valore e per l'ispirazione che se ne può trarre, ma soprattutto per la loro capacità di corrodere pregiudizi e stereotipi.
Le donne protagoniste di questa storia incarnano proprio questo ideale, lo "spirito della bambina ribelle". Sono migranti perché, per scelta di vita o cause di forza maggiore, hanno dovuto lasciare il proprio paese d'origine e reinventarsi altrove, in quell'altrove che è poi diventata casa. Come Edmonia Lewis, nata a New York nel 1844 da un padre afro-haitiano e una mamma che apparteneva al popolo nativo americano dei Mississauga Ojibwe, che sognava di diventare scultrice, un sogno ostacolato dal razzismo ancora molto accentuato nel suo paese e dalla difficoltà della società dell'epoca di accettare una donna scultrice. Fu trasferendosi in Italia, a Roma, che Edmonia poté vivere facendo la scultrice professionista unendosi a una comunità di artisti a cui interessava più il suo talento che la sua etnia o il suo genere. Percorso inverso, dall'Italia all'Argentina, fu quello di Julieta Lanieri (1873-1932) emigrata con la famiglia quando ancora era piccola. Julieta voleva studiare e diventare medico e credeva che le donne dovessero avere gli stessi diritti e le stesse possibilità degli uomini. Per questo, diventata adulta, lottò per diventare medico e diede vita a un partito politico per promuovere il suffragio universale. Quindici anni dopo la sua morte, anche grazie al suo impegno, le donne in Argentina ottennero il diritto di voto.
Trovano spazio, naturalmente, anche storie attuali e che hanno direttamente a che fare con i recenti fenomeni migratori che hanno interessato (e interessano) tutta l'Europa come luogo di accoglienza. In particolare, a colpire è l'esperienza di Muzoon Almellehan, giovane donna nata in Siria del 1998, e ritrovatasi a 11 anni a dover emigrare con i genitori a causa della guerra. Con sé poté portare solo i suoi libri di scuola, ciò a cui teneva di più: "Questi libri sono la mia forza. Questi libri sono il mio futuro". Dopo aver vissuto per qualche anno in un campo per rifugiati in Giordania, si stabilì finalmente in Inghilterra, dove, grazie allo studio e alla sua determinazione, divenne nel 2017 ambasciatrice dell'UNICEF continuando a lottare soprattutto per l'istruzione femminile, senza mai dimenticare il suo Paese d'origine.


“FAVOLA AGRODOLCE DI RISO FUORISEDE”
Silvia Rizzello racconta la Bari interculturale degli anni Novanta

La storia narrata in questo libro parla dell'intreccio delle vite di alcune donne e alcuni uomini, con bagagli culturali ed esperienziali diversi, incontratisi nella Bari degli anni Novanta. "Una città – ci dice l'autrice Silvia Rizzello nella nota iniziale – che da sempre conosce il transito, la frontiera; che tuttora conserva la varietà dei viaggiatori che l'hanno amalgamata, assaggiata, acculturata nel corso dei secoli. […] La Bari di quel periodo rappresenta un bell'esempio urbano di vivacità interculturale". Passeggiando per le vie si questa città non è difficile imbattersi in persone provenienti da Costa d'Avorio, Senegal, Camerun, Palestina, Iran, Siria, Algeria, Marocco, Tunisia…
Ed è proprio un'ivoriana la protagonista di Favola agrodolce di riso fuorisede, Lilou, una ventiquattrenne dalla casa sempre aperta, luogo di convivialità, di incontri di storie e culture tra studenti fuorisede, parenti, vicini di casa, piatti di foutou e riz gras, partite di awalé e il complicato lavoro di intreccio di capelli che Lilou faceva alla sua giovane amica italiana Priscilla, liceale figlia di avvocati e anch'essa destinata a quel mestiere.
Passano gli anni e le strade si dividono, ma "ricominciò tutto da un funerale. Da un funerale ivoriano, in una chiesa cattolica del sud Italia, una mattina di settembre, con un sole che sembrava ancora estate". Era morta Thérèse, la mamma di Lilou, e tutti gli amici si ritrovarono insieme per questo triste evento, trasformato in lieto dai bei ricordi ma anche dalla tradizione ivoriana che in queste occasioni prevede riti pieni di ottimismo e speranza, carichi di voglia di andare avanti.
E prendere la vita "all'africana" era stata in quegli anni anche la volontà di Priscilla che nel frattempo aveva deciso di abbandonare la strada da giurista per ridere, diventando così il clown Augusto, detto Toni, e l'acrobata Pulzella, e portare in giro per il mondo il buonumore.
Fulcro del racconto è dunque il riso, inteso come il momento in cui si abbatte ogni barriera sociale e culturale e ci si capisce davvero e come cibo: "il riso, l'unico piatto che mette d'accordo popoli e confini, ma talvolta fa delle eccezioni lasciando a bocca asciutta e spalancata qualcuno. Ecco dov'è, la follia".


“L’IMMIGRAZIONE A PICCOLI PASSI”
Raccontare il fenomeno migratorio a bambini e adulti

L'immigrazione a piccoli passi (Giunti 2011, 2020), scritto dalla divulgatrice Sophie Lamoureux e illustrato da Guillaume Long, è un breve testo pensato per raccontare il fenomeno migratorio ai bambini a partire dagli 8 anni. Ciò non significa che non possa essere letto a qualsiasi età, anzi la sua semplicità risulta molto utile per chiarire una realtà che viene spesso polarizzata negativamente dai media se non addirittura strumentalizzata dai dibattiti politici.

La narrazione di Lamoureux parte da lontano, dalla preistoria, e mostra come gli esseri umani si siano sempre spostati alla ricerca di una condizione di vita migliore. Percorre secoli e secoli di migrazioni (causate da guerre, persecuzioni, povertà, schiavitù), raccontando anche il cambiamento graduale nella percezione delle migrazioni dei paesi che si sono ritrovati ad accogliere migranti, dapprima fautori dell’assimilazione (i migranti devono abbracciare in tutto per tutto la cultura d’accoglienza) per poi aprirsi a una politica dell’integrazione che vede nella diversità culturale un’occasione di arricchimento comune.

Il testo tratta tutti gli aspetti del fenomeno migratorio: la differenza tra migranti e rifugiati, i motivi profondi che spingono le persone ad abbandonare il proprio paese, le difficoltà che molti migranti devono affrontare nei loro lunghi viaggi, il sistema d’accoglienza italiano, come si fa ad ottenere la cittadinanza, i dati sulle presenza delle comunità migranti sul territorio, la realtà sempre più importante dei figli delle migrazioni, le cosiddette seconde generazioni, che oggi preferiscono farsi chiamare semplicemente nuove generazioni.

Una lettura, dunque, adatta a tutti, piccoli e grandi, e soprattutto a chi voglia avere un quadro complessivo di un fenomeno sempre presente nella nostra quotidianità, ma di cui spesso non si conosce abbastanza.


"TERRANERA", UN GRAPHIC NOVEL SULL’ATTUALITÀ
Quando il paese in cui cerchi la salvezza diventa la tua nuova prigione

Terranera (Feltrinelli Comics, 2020) di Lorenzo Palloni e Martoz è un graphic novel per amanti delle crime stories ambientato nell’Italia di oggi, di cui emerge il lato più oscuro e meno risaltante agli onori delle cronache. Un tema su tutti che fa da sfondo alla vicenda è infatti quello del caporalato, ovvero del lavoro sommerso nei campi di giovani migranti irregolari.

Nell’ambito di una guerra tra mafia italiana e mafia cinese, il protagonista Natale, detto Babbo Natale, ha un compito affidato dai suoi capi che deve essere necessariamente portato a termine. Per farlo, Natale coinvolge Driss, Jamill e Hassam, tre migranti irregolari arrivati in Italia alla ricerca di una condizione di vita migliore, i quali però si ritrovano costretti in una missione criminale: dare fuoco a delle discariche. I tre, dopo essere fuggiti dal loro paese, beffati da chi avrebbe potuto aiutarli, sono così nuovamente alla ricerca di una via di fuga.

I temi dell’immigrazione e del caporalato non sono il cuore della storia, ma costituiscono la condizione affinché essa possa svolgersi. E con essi non mancano tutte le contraddizioni che troppo spesso portano con sé, i pregiudizi e lo sfruttamento, che sono qui calati nella vita quotidiana offrendo così al lettore un’opportunità di riflessione, critica e autocritica.

I dialoghi sono scarni e serrati. Molto, come è normale che sia, è affidato al disegno, che in questo caso è irregolare, deformato, quasi spaventoso e dai colori vividi e uniformi a infondere nel lettore i sentimenti di angoscia, paura e straniamento vissuti dai personaggi.

La terra nera, nel senso di criminale, di questo romanzo illustrato è la nostra, e per cercare di migliorarla è prima essenziale conoscerla, anche attraverso la lettura di quello che a prima vista potrebbe sembrare un innocuo fumetto.


"L'ITALIA SIAMO NOI"
Jacopo Storni racconta “l’altra faccia dell’immigrazione” in Italia

L’Italia siamo noi (Castelvecchi, 2016) del giornalista Jacopo Storni racconta le storie di alcuni migranti che sono riusciti a integrarsi e a realizzarsi professionalmente in Italia, persone che contribuiscono dinamicamente allo sviluppo economico del nostro Paese e che si fanno testimoni e rappresentazione del cambiamento in atto, ovvero di una società multiculturale e multietnica che non può più permettersi di trattare il fenomeno migratorio come emergenziale, ma che deve invece inizire a pensarlo come una risorsa per il mercato del lavoro, lo sviluppo e la vita stessa delle città.

Storni ha racchiuso in questo libro due anni di viaggi, dal Piemonte alla Calabria, due anni di incontri con uomini e donne di origine straniera, i quali però non fanno notizia come gli sbarchi dei migranti in fuga da guerre e miseria. Fra questi troviamo Faud, primario somalo dell’ospedale di Borgo San Lorenzo; Nelu, imprenditore edile; la pasticcera Liliam; il poliziotto Francesco e molti altri. Tutti con una storia difficile alle spalle, a volte drammatica, ma che ora, attraverso il loro lavoro, sono riusciti a realizzarsi e a inserirsi perfettamente nel tessuto sociale, mostrandosi modello di quel che significa una buona integrazione, unica strada percorribile per il nostro Paese.

Sappiamo che la componente imprenditoriale straniera in Italia rappresenta quasi il 9% (dati Fondazione Moressa) del totale delle imprese: 525mila su oltre 6 milioni, con un importante contributo economico pari a 94 miliardi. Sappiamo anche che molti imprenditori stranieri danno lavoro agli italiani, come ad esempio Lishuang, ristoratore cinese, anche lui protagonista delle storie che trovate qui narrate.

Ma Storni, nel suo viaggio, non si è limitato a raccogliere testimonianze, è anche andato a vedere che aria si respira nei cosiddetti luoghi dell’integrazione, embrioni di quella che sarà l’Italia futura, come Baranzate alle porte di Milano, il comune più multietnico della penisola, dove un abitante su tre è di origine straniera (12mila abitanti di cui 4mila stranieri, con oltre settante etnie diverse), e poi Acquaformosa e Riace in Calabria, “salvate” dallo spopolamento grazie ai migranti, e molti altri.

Obiettivo dell’autore è quello di abbattere pregiudizi e stereotipi attraverso i dati reali e, soprattutto, l’esperienza concreta, mostrando quello che spesso le telecamere non mostrano, provando così a costruire una nuova narrazione del fenomeno migratorio e dei relativi processi di integrazione.


"DISEGNAVO PAPPAGALLI VERDI ALLA FERMATA DEL METRÒ"
La storia di Ahmed Malis, illustratore iperrealista

Disegnavo pappagalli verdi alla fermata del metrò. La storia di Ahmed Malis (Giunti 2020) è un libro scritto da Nicoletta Bortolotti dedicato alla storia fuori dal comune di Ahmed, illustratore iperrealista di origini egiziane, uno dei tanti ragazzi italiani di cosiddetta seconda generazione (o meglio, nuova generazione).
Ahmed vive nella periferia di Milano con i suoi genitori, ha tanti sogni, esattamente come i suoi coetanei, ma poche possibilità per realizzarli. La sua vita prenderà però una piega inaspettata un pomeriggio di metà ottobre del 2016 quando decide di presentarsi al Cde Creta, centro di aggregazione giovanile di Azione Solidale, una cooperativa sociale che realizza attività volte a favorire un'effettiva inclusione sociale di tutti i cittadini, con particolare attenzione a coloro che vivono una situazione di fragilità. Qui viene accompagnato in un percorso di orientamento che lo porterà a voler frequentare l'accademia privata della NABA. Tuttavia, pur avendo superato il test d'ingresso, i suoi genitori non avrebbero potuto affrontare la tassa di iscrizione, problema che induce la cooperativa, nella figura di Luca Sansone (a cui nel libro si ispira il personaggio di Daniele), a contattare una giornalista grazie alla quale le sue opere finiscono in pochi giorni sul Corriere della Sera e Ahmed viene addirittura ospitato in una puntata della trasmissione Che Tempo che Fa in onda su Rai Tre. Questa improvvisa visibilità, provocata dalla rara capacità di Ahmed di disegnare qualsiasi oggetto riproducendolo nei minimi particolari fino al punto da non poterlo distinguere da una fotografia, gli permette di ottenere una borsa di studio, vincolata ai risultati in accademia, che avrebbe coperto tutto il percorso triennale.
Il libro, narrato in prima persona, è uno spaccato di quella che il protagonista chiama Giambel City, ovvero il quartiere popolare Giambellino di Milano. La storia di Ahmed diventa così anche l'occasione per dare voce a tutti gli altri ragazzi e ragazze e le loro famiglie che vivono in contesti di disagio senza speranza di un miglioramento. Il linguaggio è crudo anche se poetico, ispirato alla musica hip hop che ascoltano Ahmed e i suoi amici.
Scrive Luca Sansone nella postfazione intitolata Verso un altro mondo possibile: "Questo libro […] racconta della capacità di farcela anche quando tutto va in direzione contraria, ci parla della precarietà degli obiettivi raggiunti e di quanto sia facile perdersi dopo essere riusciti a ritrovare se stessi e il senso di quello che facciamo. Nel testo di questo libro, nei disegni e nei particolari potrete trovare le storie di tutti quei giovani che si sentono soli e persi, incapaci di affrontare la vita, che stanno male, impauriti da un mondo senza futuro e prospettive stabili. Quella di Ahmed è solo una delle tante storie che sono passate dal Cde Creta, ognuna con le sue caratteristiche e diversità. Bisognerebbe scrivere un libro per ogni ragazza e ragazzo che abbiamo incontrato".


"L'APPRODO" DI SHAUN TAN
La storia di ogni migrante in un graphic novel

L'approdo (Tunué 2016, ristampato nel 2018) di Shaun Tan, celebre illustratore australiano vincitore del Premio Oscar 2011 per il miglior cortome¬traggio d’animazione con The Lost Thing, è un graphic novel composto da sole illustrazioni. Una narrazione silenziosa che porta il lettore in un tempo lontano e fantastico in cui protagonista è un uomo costretto a migrare, lasciando moglie e figlia, alla ricerca di una condizione di vita migliore per lui e i suoi cari. Dopo un lungo viaggio si ritroverà in un mondo completamente nuovo, surreale, popolato da animali che non aveva mai visto, il tutto probabilmente frutto del suo sguardo a metà tra l'incantato e l'impaurito. Questo è il mondo in cui riporre tutte le speranze di una nuova vita.
Ma anche il lettore si ritroverà spaesato e meravigliato come il protagonista tra esseri mostruosi o al contrario premurosi che invadono i cieli a presagire sciagure o offrire protezione.
Il libro si sfoglia come un album di vecchie foto, come fosse un album di famiglia ritrovato in soffitta, tra pagine anticate e l'effetto del cuoio rovinato, una serie di immagini in ordine cronolo¬gico che raccontano partenza, viaggio, e approdo, appunto. Ma anche le piccole avventure che avverranno dopo, nel nuovo mondo.
L'approdo rappresenta la storia di ogni migrante, di ogni uomo o donna costretti a fuggire dal proprio paese con l'unico obiettivo di trovare un luogo migliore in cui vivere.


“LO SGUARDO AVANTI. LA SOMALIA, L’ITALIA, LA MIA STORIA”
Il racconto dell’esperienza migratoria e di vita di Abdullahi Ahmed

Lo sguardo avanti. La Somalia, l’Italia, la mia storia (Add editore, 2020) è il racconto in prima persona dell’esperienza migratoria e di vita di Abdullahi Ahmed, giovane mediatore culturale di origini somale dal 2016 cittadino italiano.

Abdullahi nasce a Mogadiscio, capitale della Somalia, nel 1988. Tre anni dopo, la cacciata del dittatore Siad Barre segna l’inizio di una guerra civile che sconvolge la vita di tutti gli abitanti della nazione. È in questo contesto che Abdullahi matura l’idea di partire alla ricerca di un luogo dove poter realizzare i suoi desideri: continuare gli studi e aiutare la sua famiglia in difficoltà. È così che nel 2007, a 19 anni, lascia il suo paese d’origine per intraprendere un lungo viaggio pieno di insidie e in cui rischia la vita prima attraversando il deserto e poi il Mediterraneo alla mercè dei trafficanti. Un’esperienza che non può non segnarlo profondamente e che lo accompagna sempre:

Ho ritrovato molti pezzi della mia storia in ciò che mi hanno raccontato ragazze e ragazzi in questi anni di lavoro come mediatore culturale, eppure ogni volta la descrizione dei loro viaggi mi ha colpito e ferito. C’ero anch’io su quelle barche e su quei furgoni in cui si viaggia spaventati, e se ora mi appare tutto così distante, scopro invece che in una cosa sono rimasto lo stesso Abdullahi del 2007: nella voglia mai spenta di mantenere lo sguardo avanti, rivolto a quello che c’è da costruire e non alle cose che si sono lasciate alle spalle.

Ed è proprio grazie al suo “sguardo avanti” che Abdullahi, una volta sbarcato a Lampedusa e raggiunto poi Settimo Torinese ricostruisce da capo la sua vita. Diventa un cittadino attivo della sua nuova comunità e con Generazione Ponte (associazione che recentemente è anche entrata a far parte della rete CoNNGI – Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane) fa dialogare i ragazzi somali con quelli italiani, per scambiare punti di vista ed esperienze, guardando all’Europa come luogo del possibile, ed è inoltre ideatore del Festival dell’Europa e del Mediterraneo a Ventotene, ispirato al Manifesto di Ventotene scritto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi.

Nell’utopia di Ventotene per i ragazzi africani ci sono almeno due lezioni da imparare: scoprire che è possibile preparare la pace anche in tempi di violenza e l’importanza di conoscere la storia di un luogo che, come l’Europa, per molti di loro rimane un sogno da raggiungere.
Ecco perché volevo tornare in Somalia. Per l’abbraccio di mia madre e di mio padre, certo, ma per restituire ai ragazzi della mia.

Sì perché Abdullahi sarebbe dovuto ritornare in Somalia proprio nel 2020, dopo 13 anni di “esilio”, per condividere col suo Paese d’origine idee, sogni, speranze, ma la pandemia glielo ha momentaneamente impedito.

Questo libro ripercorre tutta la sua storia, ma è anche uno strumento di riflessione molto importante per chiunque voglia superare le narrazioni superficiali del fenomeno migratorio, immergersi nella vita concreta e immaginare col suo autore “la gioia di lavorare per migliorare la vita degli altri”.


"ROMANZO CAPORALE"
Il fenomeno del caporalato in Italia raccontato in un romanzo d’inchiesta

Romanzo caporale (i Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, 2019) è un romanzo d'inchiesta del giornalista Annibale Gagliani impegnato nel raccontare il fenomeno del caporalato in Italia.
Il protagonista di questa storia, uomo senza nome a rappresentare tutti gli sfruttati, proviene dal Kenya. Ha lasciato il suo paese, perché perseguitato dopo essersi candidato alle elezioni che seguirono alla guerra civile, con la speranza di costruire altrove un futuro migliore per sé e la sua famiglia. È animato da due modelli filosofici: il missionario sandonacese don Donato Panna e Thomas Sankara, panafricanista, "il leader che l'Africa rimpiangerà per sempre". Ma giunto in Puglia, dopo la traversata del Mediterraneo, viene assoldato da un caporale come bracciante agricolo, un lavoro irregolare e sottopagato, sfiancante e disumanizzante, ma legato a doppio filo alla sua sussistenza.
Narrando la storia di quest'uomo, Gagliani porta all'attenzione del lettore le reali difficoltà affrontare da molti migranti per sopravvivere nel nostro Paese. È un atto d'accusa nei confronti di una società ancora vittima del pregiudizio ma al contempo il tentativo di ridare dignità a persone a cui è stata sottratta. Ogni migrante ha una storia, spesso carica di sofferenze e desiderio di riscatto. E il protagonista di questa storia – "che ricorda somaticamente Alì dagli occhi azzurri, migrante dall'Africa all'Italia della poetica profezia di Pier Paolo Pasolini" – ne diviene così il portavoce.
Ma Romanzo caporale è soprattutto la preghiera di abbandonare l'indifferenza. Rivolgendosi direttamente al lettore, lo sprona a comprendere una realtà oscura, che necessita, affinché cambi, l'impegno e la coscienza di tutti. Perché "alla lunga il bene vince, ma solo attraverso le piccole cose".


CON I LORO OCCHI CON LA LORO VOCE: A PARLARE DI IMMIGRAZIONE SONO LORO, I MIGRANTI
Intervista a Lucio Simonato, l'autore del testo

Parlare di immigrazione in modo originale e sincero non è facile, soprattutto volendo evitare di cadere in luoghi comuni o generalizzazioni che, troppo spesso, non offrono una reale rappresentazione della realtà. Con i loro occhi con la loro voce di Lucio Simonato è un libro scritto con questa intenzione; parla di immigrazione attraverso testimonianze dirette, vive, toccanti, delle persone e non del “fenomeno”. E’ un mosaico di esperienze dai tanti riflessi, racconti e immagini che suggeriscono al lettore riflessioni più profonde, interrogativi nuovi anche a chi conosce questi temi. Ne parliamo con l’autore.

Qual è la sua esperienza nel campo dell’immigrazione e che cosa l’ha spinta ad interessarsi a queste tematiche?
Lavoro in ambito sociale da sempre e ho contatti quotidiani anche con persone immigrate. Spesso mi sono trovato a riflettere sui limiti legati al pregiudizio che ci impedisce di riconoscere nell'altro, qualunque sia la sua condizione ed il colore della sua pelle, una persona come noi. Nel caso delle persone migranti, che facilmente individuiamo, cadiamo ancor più facilmente in questo errore e non riusciamo ad andare oltre. Ciò che vediamo ci basta, ci sembra di sapere già tutto e non ci diamo il tempo di capire chi è realmente la persona che ci sta davanti. Desideravo conoscere e possibilmente far conoscere meglio al pubblico queste persone, il loro punto di vista e il nostro mondo visto dai loro occhi.

Che cosa l’ha portata a raccogliere le storie delle persone da lei intervistate per comporre l’affresco di Con i loro occhi con la loro voce?
Ho desiderato che il lettore sperimentasse, come spesso è capitato a me, che la prima impressione non offre una buona rappresentazione della realtà. L'ascolto dell'altro, l'ascolto fatto con il cuore, ci può aiutare, può essere un metodo efficace. Nel mio libro non parlo di immigrati ma di persone immigrate perché prima di tutto, secondo me, sono persone che la vita ha condotto nel nostro Paese. Per conoscere ho scelto l'intervista qualitativa, libera da schemi. In questo modo ho potuto modellare le mie domande di volta in volta a seconda del momento, della persona e di ciò che la stessa avrebbe potuto dire.
Grazie per averlo definito “affresco”, dalle molteplici e variegate sfumature aggiungerei io, per questo a volte quando mi chiedono cos'è per me il mio libro io rispondo che è un tesoro, ricco di gemme diverse. Ogni intervista è una gemma preziosa, unica.

Come ha scelto gli intervistati?
Dai dati ISTAT disponibili (2012) sapevo che in Italia erano presenti quasi quattro milioni di persone straniere. Consapevole che non avrei mai potuto raccogliere un numero rilevante di interviste da un punto di vista statistico, ho scelto un metodo di ricerca diverso. Non avevo deciso a priori quante persone avrei incontrato, piuttosto ho deciso di muovermi liberamente, senza calcoli, per comporre una raccolta che mi potesse rappresentare la variopinta realtà della nostra società. Ho intervistato per lo più casualmente persone incontrate per strada, nei luoghi di ritrovo, a casa loro piuttosto che ai giardini pubblici o in stazione. Il luogo era concordato possibilmente per essere tranquilli, ma soprattutto perché l'intervistato si sentisse a proprio agio. Altre persone, invece, le ho cercate appositamente, mi riferisco alle persone che normalmente vivono “nascoste” (prostitute, detenuti, persone senza un permesso di soggiorno regolare, ad esempio). Non volevo scegliere, non volevo mostrare solo una parte (magari la parte buona), desideravo capire.

Chi non si informa abitualmente attraverso l’informazione generalista, non è facile che cerchi di colmare le sue lacune attraverso la lettura di libri “specialistici”. A chi è rivolto il suo libro? Pensa che possa apportare una maggior conoscenza e comprensione del fenomeno migratorio?
La mia volontà è stata quella di scrivere un libro che fosse accessibile a tutti, anche per questo ad un certo punto mi sono fermato con la raccolta delle interviste. Non volevo scrivere un libro di troppe pagine, già questo a volte diventa un impedimento. Per altro verso, però, desideravo scrivere bene perché il contenuto non venisse snobbato.
A sei mesi dalla pubblicazione, senza presunzione, ho l'impressione di aver fatto un buon lavoro. Noto interesse, l'ho presentato in diverse occasioni e ancora ricevo inviti a presentarlo, a parlarne, e di tutto questo sono sinceramente lusingato. Ciò che mi fa piacere, comunque, è quello che mi viene detto da chi lo ha letto. Sono le cose semplici che ci fanno contenti, non è un luogo comune: come la signora che mi dice “da quando ho letto il suo libro... apro la porta di casa allo straniero che suona il campanello”…

Qual è la sua impressione sull’informazione generalista sull’immigrazione?
Sinceramente, a volte ho l'impressione che giornali e media “cavalchino” questo tema sottolineando di volta in volta un aspetto o l'altro mossi da interessi particolari piuttosto che dalla volontà di informare, e questo dispiace. Eppure io credo che la disaffezione dai giornali possa dipendere anche da questo, chi legge a volte sente leso il suo diritto ad avere una informazione libera, disinteressata e obiettiva.

Il suo libro riconduce la questione migratoria dal generale al particolare, da fenomeno a storie di persone in carne e ossa. È questa una chiave, secondo lei, per poter comprendere meglio le migrazioni ?
Una persona mi ha detto “finalmente, finalmente qualcuno che non parla di immigrazione dalla sua seggiola ma ci fa conoscere le persone immigrate”, un'altra invece “scrivono di noi immigrati e non ci conoscono, non ci chiedono, non parlano con noi”. Sono due delle impressioni che ho raccolto da chi ha letto il libro e mi pare dicano molto di quello che ho cercato di fare col mio lavoro, dal progetto iniziale alla firma della bozza finale. Io credo che questa potrà essere una chiave per capire molti aspetti che conosciamo poco, umilmente ci dobbiamo mettere in ascolto senza trarre subito conclusioni, questo tipo di ascolto porta sicuramente a maggiore conoscenza.

Ci sono esperienze che l’hanno colpita particolarmente? Qualcosa che non si aspettava?
Le interviste sono brevi o più lunghe a seconda della capacità di esprimersi della persona intervistata, ma tutte le testimonianze che ho raccolto sono state un contributo importante per il libro, tutte le persone che ho incontrato mi hanno donato un pezzo di sé con sincerità e gratuità inusuali in questo nostro mondo dove tutto ha un prezzo. Per questo posso dire che tutte mi hanno colpito, tutte per me hanno qualcosa di speciale. Prima di cominciare il libro avevo cercato di pensare un po' a tutto, mi ero documentato e preparato, avevo letto, approfondito aspetti di ricerca, metodi di scrittura delle interviste… Non volendo legarmi a domande o schemi avevo sperato che il mio modo di approcciarmi potesse suscitare la fiducia necessaria perché la persona si aprisse e riuscissimo a dialogare un po'. Avevo sperato che le persone mi raccontassero anche di aspetti particolari, familiari, culturali, e così è stato. Nelle interviste raccolte alcuni argomenti sono comuni, il viaggio, il distacco, la crisi economica, il lavoro, ecc., oltre a questo però gli intervistati mi hanno parlato di tanto altro, più ancora di quanto avevo immaginato. Mi hanno parlato dei bambini, della scuola, della donna, del rapporto con gli italiani, dell'accoglienza e della non accoglienza, della fede, delle tradizioni, della cultura del paese d'origine…

Cosa le è rimasto di questa esperienza? Ha ancora contatti con le persone intervistate?
Come dicevo, è un libro ricco per me, ed io mi sento più ricco. È stata un'esperienza importante, profonda, che mi ha dato molto. Incontrare, capire, chiedere, ascoltare le risposte, trascrivere le registrazioni, non è stato un lavoro quanto piuttosto un cammino di condivisione. Io ho sempre ringraziato le persone, invece spesso a fine intervista erano loro a ringraziarmi. Di cosa ringraziano, mi domandavo? Non avevo dato loro niente, nessun compenso o premio, nessuna promessa, eppure ricevevo il loro grazie forse dell'ascolto, dell'attenzione, della volontà di capire. Con alcune delle persone intervistate sono rimasto in contatto, a chi mi è stato possibile ho inviato copia del libro e ho ricevuto positivo riscontro.

Il concetto di “persona” che emerge nelle conclusioni del suo libro è particolarmente interessante. Ci riassume brevemente cosa c’è dietro questa parola?
Nelle conclusioni ho agganciato il mio lavoro al concetto di “persona” sfiorando il pensiero di alcuni grandi filosofi dall'Antichità e fino agli anni più recenti. In questo modo cercavo di evidenziare quanto la complessità di questo concetto abbia determinato anche la controversa evoluzione dello stesso termine facendogli assumere, infatti, significati diversi. Il nostro considerare “persona” l'essere umano è certamente il risultato degli sviluppi filosofici-culturali cui accennavo, ma il suo riconoscimento è altresì un'aspirazione legittima che la storia ha visto essere frutto di sacrifici, compromessi e reciprocità. Ho voluto sottolineare che ci troviamo di fronte ad un concetto in divenire che vive del contesto figurandone le diverse accezioni. Non considerare questi percorsi e il cammino fatto può svalutare la nostra umanità che, arrivando a negare quella altrui, nega di fatto anche la propria. Perché il futuro sia possibile per tutti ho comunque sottolineato che l'individualismo non può passare i limiti del rispetto reciproco perché, secondo me, nessuno basta a sé stesso.

Come fare, secondo lei, a superare visioni stereotipate in relazione ai migranti e favorire una riflessione più profonda nella collettività?
Ho scritto un libro per conoscere e far conoscere meglio le persone immigrate, il fenomeno migratorio come abitualmente lo sentiamo chiamare è la cornice entro cui si collocano persone prima che numeri. Questa domanda mi viene posta anche dai giovani nelle scuole, e mi fa molto piacere. Significa voler capire, essere aperti, e già questo è un buon inizio. Io sono convinto che la conoscenza abbatte tanti muri, quello della diffidenza, quello dei luoghi comuni, quello del diverso uguale a pericoloso. Abbiamo affrontato il tema degli stereotipi, ostacolo alla pacifica convivenza, anche con il Progetto Beams recentemente conclusosi a Venezia. La Regione Veneto con Veneto Lavoro ha presentato i risultati di questo studio condotto in 16 città europee arrivando alla medesima conclusione. La maggior conoscenza può diventare il motore della crescita culturale di cui abbiamo bisogno. Siamo tutti abitanti di questo mondo, proveniamo da luoghi diversi e la diversità culturale ne è solo una logica conseguenza che nel rispetto reciproco rende tutti più ricchi.

Ha in programma qualche nuovo progetto legato a queste tematiche?
Non nascondo che mentre costruivo questo libro non pensavo al dopo, alle implicazioni che ci sarebbero state. I riscontri che ricevo mi fanno pensare che sia apprezzato, sento che chi lo legge ne è contento e tutto questo mi riempie di soddisfazione soprattutto perché mi pare di aver dato un piccolo contributo alla riflessione su un tema a volte strumentalizzato. Il nostro mondo, la quotidianità che viviamo, la frenesia delle nostre giornate spesso ci fanno dimenticare che c'è dell'altro rispetto a ciò che vediamo e ciò che appare evidentemente non è sempre una buona rappresentazione della realtà. Ci sono altri ambiti sociali che vorrei approfondire magari con lo stesso metodo che ho visto essere più efficace di tante parole. Ci sto pensando, come già in questa occasione lascio alla mente il tempo per capire meglio, per immaginare, costruire, e mi preparo leggendo, studiando.
Grazie a voi per avermi dato la possibilità di parlare di argomenti che mi stanno così a cuore.


STUDIARE E CAPIRE PER SUPERARE I PREGIUDIZI SULLE COMUNITÀ MIGRANTI
Una riflessione a partire da Migrazioni, diaspore e complessità di Anna Maria Cossiga e Mario Pesce

Qual è il contributo che possono dare sociologi e antropologi alla comprensione di un fenomeno complesso come quello migratorio e, più concretamene, ai diversi tipi di governance impegnati nel gestire i percorsi di inclusione sociale sul territorio e quindi, inevitabilmente, anche gli episodi di xenofobia e razzismo?

Anna Maria Cossiga e Mario Pesce, gli autori del libro Migrazioni, diaspore e complessità (Eurilink 2015), dal quale prendiamo spunto per questa riflessione, provano a spiegarlo nella parte introduttiva: anzitutto la trasmissione di saperi che possono rendere migliori il lavoro degli operatori sociali; di conseguenza uno stimolo all’evoluzione culturale per un superamento degli stereotipi culturali; l’aumento delle stesse competenze culturali di chi si occupa del fenomeno; e infine la possibilità di un intervento diretto dell’antropologia per analizzare e risolvere problemi e rispondere alle esigenze delle varie comunità.

Il volume è dedicato in particolare alle esperienze delle comunità ebraiche, sikh e palestinesi e alle cosiddette diaspore rappresentate in modo emblematico dalle suddette comunità. La prima complessità – altra parola chiave del libro, che non a caso compare anche nel titolo – è proprio legata al concetto di diaspora per cui esistono diversi criteri di interpretazione. In questa direzione Anna Maria Cossiga mette in ordine le definizioni che si sono susseguite negli anni di alcuni importanti studiosi offrendo un quadro della situazione dei cosiddetti diaspora studies che impegnano sociologi, antropologi e non ultimi i geografi. La parola “diaspora” deriva dal verbo greco diasperein, che significa disseminare, spargere, disperdere, e in generale quando parliamo di diaspora facciamo riferimento alla dispersione, appunto, di un popolo, che mantiene un legame significativo con la patria d’origine, nel mondo. Il fenomeno diasporico più noto è di certo quello ebraico, ma non è l’unico, ed è per questo che oggi si parla di diaspore al plurale.

Se sulla diaspora ebraica (ma anche su quella palestinese) non mancano gli studi, questo volume ci dà la possibilità di conoscere più da vicino il fenomeno migratorio che coinvolge la comunità sikh, soprattutto nel nostro Paese. Mario Pesce, infatti, ci fa notare come i sikh in Italia rappresentino un caso emblematico di “invisibilità”, dato che nelle statistiche dei migranti presenti sul territorio italiano vi è solo la dicitura indiani (i sikh sono circa il 2% della popolazione indiana). Sikh è una connotazione religiosa, che fa riferimento al sikhismo, movimento religioso radicato soprattutto nella regione indiana del Punjub. Una regione dalla difficile situazione politica ed economica, la quale, insieme alle dispute socio-religiose tra sikh e indù, negli ultimi anni ha costretto un gran numero di sikh a una vera e propria diaspora.

Pesce, attraverso le testimonianze dei migranti stessi e l’analisi delle loro tradizioni socio-religiose mantenute vive nel nostro Paese, ci offre uno spaccato significativo della situazione della comunità sikh in Italia, delle motivazioni per cui hanno deciso di partire e dello stadio del loro percorso di inclusione sociale. È importante ricordare come il nostro Paese, in Europa, sia il secondo dopo la Gran Bretagna, per la migrazione degli indiani, e che la migrazione dal Punjab rappresenti oggi il più consistente flusso migratorio dall’India verso l’Italia. Secondo il dossier statistico della Fondazione Migrantes Asia e le statistiche ufficiali del governo indiano, gli indiani residenti in Italia sarebbero poco più di 120.000, ai quali vanno ovviamente aggiunti gli irregolari. Si ipotizza quindi che, di questi, i residenti sikh siano circa 60.000, di cui 3000/3500 nella provincia di Roma.

Conoscere i dati e i fatti reali per cui una comunità affronta una diaspora, come la chiama Pesce, va nella direzione dell’abbattimento di pregiudizi e schemi culturali limitati e nell’accrescimento degli strumenti di comprensione di fenomeni dalle sfaccettature molto complesse, ma in realtà particolarmente semplici se solo si riuscisse a fare uno sforzo di immedesimazione. A questo proposito un’immagine molto forte e rappresentativa ce la fornisce lo stesso Pesce quando paragona la condizione del migrante al Signor K., protagonista del romanzo Il castello di Kafka, al quale viene imputato di non essere abitante autoctono del castello, di essere diverso, in sostanza nulla, anzi “di troppo”. Questo per quanto riguarda il conflitto che viene a crearsi nel paese “che accoglie” tra autoctoni e migranti, ma andrebbe anche considerato che i rischi che corrono i migranti nell’intraprendere i loro viaggi per una migliore aspettativa di vita sono così alti che non possono non essere motivati da una reale necessità, e noi al loro posto agiremmo allo stesso modo, aspettandoci comprensione.

Il problema è che troppo spesso si pensa alle comunità migranti in blocco, come o tutte “buone” (come nel caso dei sikh) o tutte “cattive” (pensiamo per esempio ai rom). E questo perché manca un’informazione corretta, perché non si conoscono ragioni, aspettative, dati delle comunità e delle singole persone che la compongono. Forse per mancanza di interesse. E questa mancanza di interesse è però provocata da un altro profondo pregiudizio che inquadra i migranti come portatori di caos – nella fattispecie come coloro che rubano il lavoro agli autoctoni, e oggi anche come portatori di malattie e terrorismo –, e non, invece, come arricchimento culturale ed economico.


"AIWA. LA NOSTRA AFRICA"
Conoscere e farsi conoscere attraverso i colori

"Aiwa" in arabo significa "andiamo avanti", racconta Daniela Morandini per introdurci a questa pubblicazione di Strade Bianche così intitolata, richiamando in tal modo l'esortazione che gli ospiti del centro di accoglienza di casale San Nicola, a Roma, nel 2015 si scambiavano l'un l'altro. Sono loro e le loro immagini interiori, consegnate alla rappresentazione artistica in forme e colori, i protagonisti di Aiwa. La nostra Africa. Si chiamano Noradin Ahdi, Ibrahim Ballo, Mebrahtorn Berhe, Karamo Camara, Abdoulie Conteh Conteh, Aliou Kamissoko, Yusuf Saho e provengono da Gambia, Senegal, Mali, Eritrea, Somalia. Sono fuggiti dai loro Paesi a causa di guerre e miseria, rischiando la vita per raggiungere le coste europee.
Un libro d'arte, dunque. Un libro in cui questi ragazzi raccontano il mondo che hanno lasciato, il loro immaginario interiore, ovvero chi sono e da dove vengono, nell'arte del disegno, uno strumento universale e dalla penetrante forza comunicativa. Ci troviamo così di fronte a vivide rappresentazioni di differenti culture, tra usanze, maschere, fiabe, leggende, danze, proteste, immagini bucoliche, in un trionfo di colori nitidi e diretti, particolarmente vitali.
Aiwa. La nostra Africa è un modo diverso per parlare del fenomeno migratorio che sta interessando l'Europa, ma soprattutto un modo diverso di guardarlo, considerando non i dati e i numeri, ma le persone e quello che hanno da comunicarci.
L'intero libro è liberamente scaricabile dal sito di Strade Bianche, una nuova realtà editoriale – figlia della quasi cinquantennale esperienza di Stampa Alternativa - sganciata dalle logiche del marcato per rendere realmente libera la lettura e lo scambio di libri e conoscenza. È tuttavia possibile acquistare Aiwa. La nostra Africa al prezzo simbolico di (almeno) 1 euro, più 1 euro e 28 di spese di spedizione. Il ricavato andrà interamente agli autori dei disegni.


"STORIEMIGRANTI" DI SIO E NICOLA BERNARDI
32 fumetti per raccontare la vita quotidiana dei migranti

È questa l'idea di Storiemigranti (Feltrinelli Comics, 2019): chiedere ai migranti, appunto, di raccontare una storia a scelta, non necessariamente legata al loro percorso migratorio. Storie che Sio, fumettista molto amato dai più giovani, e Nicola Bernardi, fotografo, hanno rielaborato dando vita a questo libro, una raccolta di 32 fumetti di massimo 12 tavole, sempre distribuite su due facciate, prima dei quali compare il ritratto fotografico del protagonista.
Sio e Nicola Bernardi, infatti, in collaborazione con il Centro di Solidarietà L'Ancora di Sanremo, nell'ottobre 2018 sono andati in diversi Cas (Centri di accoglienza straordinaria) – Imperia, Vallecrosia e Bajardo – a conoscere e chiacchierare coi migranti ospitati. Qui hanno trovato persone provenienti da tutto il mondo che hanno condiviso storie di tutti i tipi: da quelle tristi a quelle divertenti fino a quelle quasi incredibili. Ma sempre "normali", nel senso che potrebbero capitare a qualsiasi persona, come ad esempio quella del ragazzo che viene lasciato dalla fidanzata per un'incomprensione su Whatsapp. Tuttavia, è l'aspetto "stravagante" di alcune storie, condite con ironia dagli autori, a rendere ancor più piacevole la lettura: come la storia del cercatore d'oro che passa quattro mesi nel deserto senza trovare nulla e al suo ritorno trova una borsa abbandonata piena zeppa di soldi, o di quel ragazzo che non si capacita di come gli italiani non conoscano il Kabaddi, uno sport – per noi – alquanto bizzarro. Naturalmente c'è anche chi ha raccontato il proprio viaggio per arrivare in Italia, quasi sempre accompagnato da insidie, nostalgia e sofferenza.
L'obiettivo del libro è dunque mostrare i migranti sotto la luce della quotidianità, ricordando – se ce ne fosse ancora bisogno – che dietro ai numeri dei telegiornali ci sono persone con un passato, dei desideri, e la voglia di scrivere il proprio futuro, come tutti noi. Il linguaggio del fumetto rende il tutto più fruibile e risulta particolarmente indicato per i bambini, i quali, come del resto anche gli adulti, si trovano quotidianamente bombardati da notizie non sempre aderenti alla realtà, o, più semplicemente, che mettono in mostra soltanto un aspetto del fenomeno migratorio che interessa il nostro Paese.